Se l’accusa di razzismo è solo pigrizia

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PARIGI — Il 14 luglio, festa della Repubblica francese, prima dei fuochi artificiali 800 mila parigini e turisti hanno assistito davanti alla Tour Eiffel al concerto organizzato da «Sos Racisme» , l’associazione per i diritti umani fondata nel 1984 da alcuni politici e intellettuali di sinistra tra i quali lo scrittore franco-polacco Marek Halter. Ai lati del palco dove è salito Halter e si è esibito poi tra gli altri l’ex tennista Yannick Noah, regolarmente eletto ogni anno «personalità  più popolare di Francia» , due enormi manifesti con lo storico slogan Touche pas à  mon pote («Giù le mani dal mio amico» ), in difesa degli immigrati e di chiunque sia diverso dalla maggioranza.
Sullo Champ de Mars si è celebrato un rito che a un italiano può avere ricordato il «concertone del Primo Maggio» romano, con la sua inevitabile quota di buone intenzioni e retorica. Il giorno dopo il filosofo Pierre-André Taguieff, che allo studio del razzismo ha dedicato molti anni e opere importanti come Il razzismo. Pregiudizi, teorie, comportamenti (Raffaello Cortina), pur senza nominare esplicitamente il concerto, si è prodotto in una lunga tirata polemica dal titolo «L’antirazzismo, una macchina per fabbricare esclusione?» . «Dare a un individuo del razzista significa bollarlo nel modo più definitivo possibile — si legge nel saggio di Taguieff sul sito Atlantico. fr —, equivale a escluderlo dal dibattito pubblico. Ma questo uso polemico, in nome del Bene, ha vuotato il termine razzista del suo contenuto concettuale» . Razzismo, secondo Taguieff, è ormai un termine usurato perché lo si applica a sproposito a ogni tipo di discriminazione: omosessuali, donne, giovani, vecchi, immigrati, handicappati sarebbero tutte vittime di razzismo, quando possono certamente essere oggetto di un trattamento a loro sfavorevole, ma non per questo fondato sul disprezzo etnico. Taguieff, noto per i suoi lavori sull’antisemitismo e sulle teorie del complotto come eterno strumento dell’estrema destra, fustiga la moderna «pigrizia intellettuale» che consiste nel fare un uso magico della parola razzismo per scongiurare il Male.
Non è solo una questione nominalistica. A suo dire, l’abuso dell’azione antirazzista avvelena il dibattito pubblico e contribuisce paradossalmente a peggiorare i rapporti sociali, dando loro un connotato razziale anche quando non ce l’hanno. «L’antirazzismo — conclude il sociologo — è diventato una macchina per fabbricare esclusione, per sporcare e condannare a morte civile. L’antirazzismo è in attesa di una riforma intellettuale e morale» .
Gli esempi non mancano: dagli scrittori continuamente accusati di razzismo (da Saul Bellow a V. S. Naipaul, da Martin Amis a Michel Houellebecq) a quella preside denunciata pochi giorni fa da otto insegnanti di Blois per avere detto la verità : e cioè che i risultati scolastici degli allievi della regione Centro sono di quattro punti inferiori alla media nazionale, «ma se escludiamo i bambini figli di immigrati i nostri risultati sono in linea con gli altri Paesi europei» , aveva precisato la signora Reynier, senza intenti discriminatori. Eppure, «razzista» .
Che ne pensa Marek Halter, che con «Sos Racisme» è implicitamente indicato da Taguieff come uno dei responsabili dell’abuso linguistico e intellettuale? «Su certi aspetti Taguieff non ha torto — dice Halter —, è vero che assistiamo talvolta a mode del linguaggio poco opportune. Per esempio, “massacro”non basta più, per rendere l’idea di un crimine spaventoso che colpisce miriadi di vittime ormai si sente il bisogno di evocare per forza il “genocidio”. La stessa forma di pigrizia può toccare anche l’uso di “razzismo”. Detto questo, io preferisco essere rigoroso. Non sono tempi in cui si possa abbassare la guardia» . Halter, fuggito con i famigliari dal ghetto di Varsavia e fatto prigioniero in un gulag sovietico, non si lascia affascinare dall’altra moda culturale del momento, quella che in nome della lotta al politicamente corretto sdogana frasi che anni fa non si sarebbero pronunciate.
Uno dei campioni francesi di questo atteggiamento è Eric Zemmour, il polemista che su giornali, radio e tv è abituato a rompere i tabù con piacere quasi infantile: una volta dicendo che «le razze umane esistono, i colori della pelle sono diversi e infatti i velocisti neri sono imbattibili» , un’altra volta argomentando che «la maggioranza degli spacciatori sono neri e arabi» . «Parlare è agire, le parole sono pericolose— commenta Halter— e bisogna fare attenzione. È meglio preoccuparsi del razzismo una volta di troppo che dare il via alla banalizzazione opposta. Quando Zemmour dice che gli spacciatori sono neri e arabi, sostiene di dare semplicemente un’informazione ma volontariamente o meno questo ha l’effetto di rafforzare il pregiudizio. La verità  è che siamo tutti razzisti, e questo è un problema. Se un bianco le taglia la strada in macchina, lei lo manderà  al diavolo. Se è un nero, sarà  tentato, almeno inconsciamente, di gridargli “sporco nero”. È purtroppo la natura umana, che però va combattuta».
Taguieff se la prende soprattutto con l’abitudine di bollare come razzista qualsiasi forma di sopruso. «Lo capisco, ma in certi casi mancano i termini alternativi. Come chiamare chi insulta una persona solo perché è una donna? Misogino? No, io credo che razzista resti il termine adatto. Non stiamo più parlando del razzismo biologico di Gobineau e dei nazisti, è vero. Ma i razzisti evolvono. Persino Marine Le Pen vuole visitare lo Yad Vashem, il memoriale dell’Olocausto a Gerusalemme. Io resto vigilante» .


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