Sfrattati, soli e senza soldi la parabola dei pentiti “Prima spremuti poi buttati”
Coccolati alla bisogna, assecondati nelle loro bizze, per un bel po’ qualcuno li ha creduti in tutto e per tutto. Erano le voci della verità . Quando non sono serviti più li hanno buttati via. Si sa, lo Stato italiano ha sempre avuto la memoria corta.
Pentiti. A Palermo, quasi trent’anni fa era parola d’offesa. Come cornuto e sbirro. Se volevi insultare qualcuno dicevi: «Sei un Buscetta». O lo apostrofavi proprio in quel modo: pentito. Il capo dei capi di Cosa Nostra quando parlava di loro scandiva le sillabe – pen-ti-ti – e si difendeva raccontando che «quelli camminano mani per mani e sono tutta una bugiarderia». Giulio Andreotti – ce n’erano trentasette che lo accusavano – rispondeva a tutti loro così: «Vendono bufale a rate». Uno, Leonardo Messina, alla fine dell’estate del 1992 giurò che il divo Giulio era addirittura ‘punciuto’, cioè non un semplice simpatizzante ma un affiliato alle famiglie mafiose. Allora, se ne parlò tanto di quella rivelazione. Se Leonardo Messina la dovesse ripetere oggi, lo chiuderebbero in un manicomio giudiziario e getterebbero la chiave a mare.
In Italia, è andata come è andata anche con i pentiti. Osannati prima, “schifiati”, disprezzati poi. Qualcuno di loro ha retto al cambio di passo dello Stato e qualcun altro s’è spezzato. In verità tutti, venendo da dove venivano, lo immaginavano che sarebbe finita così. Nell’abbandono, nella solitudine di chi ha scelto di buttarsi dall’altra parte. Ripudiati da mogli e perfino da madri («Io non li ho mai partoriti quegli infami», gridò nel quartiere palermitano dello Sperone Marianna, quando i suoi due figli Emanuele e Filippo Di Pasquale si consegnarono agli agenti della Dia), spremuti dallo Stato e poi lasciati al loro destino.
È capitato perfino a Francesco Marino Mannoia, il primo dei «corleonesi» a collaborare alla fine del 1989 con il giudice Falcone, uno che aveva raccontato come funzionava il traffico di droga fra la Sicilia e gli States (lui stesso aveva imparato a raffinare la morfina base da corsi e marsigliesi) e che poi era finito nelle mani degli americani e trattato con i guanti gialli per un ventennio. Figuriamoci la sorte degli altri. Quelli semi sconosciuti e usati per incastrare il boss di un paese, quelli che non si chiamano Giovanni Brusca o Nino Giuffrè, nomi del firmamento mafioso.
Per esempio è solo di qualche giorno fa la notizia che proprio uno dei collaboratori di giustizia più ignoti, un certo Roberto Spampinato di Catania, è stato sfrattato dall’abitazione dove era agli arresti domiciliari. Insomma non può scontare neanche la sua pena perché – come ha scritto il giudice di sorveglianza del Tribunale di Roma, «non ha più una fissa dimora». Non ha più casa perché lo Stato non paga il suo affitto. Sono in tutto 90 i pentiti sfrattati nell’ultimo anno. Le casse del Servizio centrale di protezione sono vuote. È il crac. Alcuni sono stati dirottati in comunità religiose – conventi di suore – che li hanno accolti, altri hanno raggiunto senza auto blindata (non c’erano soldi per la benzina) la Calabria, altri ancora hanno perso l’assistenza sanitaria. E poi i loro avvocati, da un anno lavorano gratis: non ricevono più gli onorari. Lo Stato non paga nemmeno loro. Lo Stato non è più in grado di rispettare il patto che aveva fatto con quei mafiosi che avevano deciso di stare con la giustizia.
I fondi per i collaboratori erano 70 milioni di euro nel 2006 e 52 milioni nel 2008, 49 milioni nel 2010 e 34 in questo 2011. Un taglio del cinquanta per cento in cinque anni che di fatto sta mettendo in pericolo molti processi di mafia, ‘ndrangheta e camorra. «Anticipiamo soldi di viaggi e alberghi, i collaboratori non vanno a colloquio nemmeno con i loro familiari perché al servizio di protezione non hanno il denaro per i trasferimenti», racconta Mariella Di Cesare, un avvocato che assiste i napoletani Giuseppe Sarno e Paolo Di Grazia e il casalese Luigi Guida.
Lo Stato non paga l’affitto ma se ne frega anche del resto. C’è un romeno, Alexandru Bodnariu – pentito di un’associazione mafiosa che regnava su Santa Maria Capua Vetere – che da mesi chiede le carte per iscriversi all’Università ma il Servizio di protezione neanche gli risponde. «Nel Servizio di protezione ci sono anche persone molto responsabili che cercano di risolvere i grandi problemi che ci sono ma è il sistema che è al collasso, lo Stato ignora le esigenze primarie di queste persone», denuncia Monica Genovese, avvocata palermitana che difende Santino Di Matteo – uno dei pentiti della strage di Capaci – e una dozzina di collaboratori di ultima generazione. Uomini che vivono con 1200 euro al mese insieme a moglie e due figli ma che ricevono lo stipendio con settimane di ritardo. O che si ritrovano con la luce tagliata a casa perché chi deve pagare non paga. O che sono costretti, per una testimonianza, a fare su e giù per l’Italia per 48 ore perché lo Stato non può permettersi un pernottamento in un albergo.
L’altro venerdì si è impiccato un esattore del «pizzo» della famiglia palermitana della Guadagna. Si chiamava Giuseppe Di Maio, la moglie l’aveva lasciato perché «spione». Non ce l’ha fatta e se n’è andato per sempre. Qualche giorno prima un altro pentito siciliano ha detto quello che pensava. Era in udienza, a Roma. Ha chiesto la parola e poi ha cominciato a parlare: «Se voi lasciate soli i collaboratori non date un buon esempio perché la mafia non li lascia mai soli i mafiosi. Cosa Nostra assicura uno stipendio ai carcerati e ai loro familiari, paga anche gli onorari agli avvocati. Io vengo qua perché sono pentito dentro, altrimenti dovrei solo scappare da questo Stato». Manuel Pasta, mafioso della famiglia di Resuttana Colli, Palermo.
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