Turchia, lo schiaffo dei militari a Erdogan

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Una resa dei conti micidiale. Fra le due entità  contrapposte che reggono il Paese. In Turchia l’inizio di agosto segna sempre un momento di turbolenza nei rapporti tra Forze armate e governo islamico moderato, a causa della consueta riunione dello YAS, il Consiglio militare supremo che decide le promozioni degli alti ufficiali. Ma quel che è accaduto ieri ad Ankara non è mai successo nei quasi 90 anni dalla fondazione della Repubblica nata dalle ceneri dell’Impero Ottomano.
Il capo di Stato maggiore, cioè il numero uno delle Forze armate, il generale Ishik Koshaner, ha rassegnato polemicamente le dimissioni ieri pomeriggio dopo una serie di colloqui riservati avuti con il capo dello Stato Abdullah Gul, e con quello del governo Recep Tayyip Erdogan, entrambi fondatori del partito conservatore Giustizia e sviluppo, di origine islamista. Insieme con lui, per solidarietà , si sono successivamente dimessi anche i capi di Stato maggiore di Esercito, Marina e Aeronautica. Koshaner verrà  sostituito dal generale Necdet Ozel, finora capo della Gendarmeria.
Nessuna delle due parti ha dato per ora spiegazioni per un gesto che rischia di destabilizzare lo Stato e il Paese, mentre l’economia turca vola e il Pil ha superato nell’ultimo trimestre l’11 per cento, battendo addirittura la Cina. Al centro di questo scontro al calor bianco ci sono i dissidi riguardanti una serie di promozioni in vista della seduta decisiva dell’organo militare supremo, prevista per domani. I vertici delle Forze armate pretendevano che fra i nuovi incarichi risultassero 17 ufficiali dell’Esercito, detenuti assieme ad altri 25 commilitoni implicati nel piano per un presunto colpo di stato denominato “Martello”, scoperto nel 2003 e avente lo scopo di scalzare Erdogan dal potere. Il governo avrebbe voluto trasferirli direttamente nella Riserva. I militari accusano invece gli islamisti al potere di voler promuovere ufficiali sensibili alle istanze religiose, e dunque secondo loro poco inclini nel difendere la Costituzione laica voluta da Ataturk, padre della patria e fondatore della Turchia moderna.
Il durissimo braccio di ferro richiama i risultati usciti dalle ultime elezioni generali del 12 giugno, stravinte dal partito conservatore di Erdogan con quasi il 50 per cento dei consensi. Mentre gli ufficiali ancora si leccano le ferite per la sconfitta nel referendum del 2010, che ha visto il Paese voler limitare fortemente i poteri un tempo assegnati a una classe, quella militare, tuttora molto potente e rispettata.
Di norma, gli incarichi assegnati ai più alti gradi delle Forze armate vengono concordati dopo lunghe mediazioni fra le due parti. Così non è avvenuto questa volta. È vero che lunedì prossimo i tre comandanti di terra, cielo e aria, tranne il capo di Stato maggiore Koshaner, sarebbero andati in pensione. E ieri sera l’agenzia di stampa Anadolu, semi ufficiale, ha precisato che la loro richiesta di dimissioni è in realtà  una domanda di pensionamento. Ma il gesto eclatante espresso dall’altissimo vertice militare turco nella sua totalità  ha comunque un valore simbolico dirompente, sulla scia di un braccio di ferro in atto da anni che sembra, adesso, giunto all’alba dello scontro decisivo.


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