Un nuovo pentito contro il ministro «Sostegno al clan vicino a Provenzano»

by Sergio Segio | 15 Luglio 2011 6:31

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È Stefano Lo Verso, «uomo d’onore» che ha retto le sorti del clan di Ficarazzi, piccolo centro alle porte di Palermo, talmente vicino a Bernardo Provenzano da portargli le medicine che tenevano in vita il padrino corleonese durante la sua latitanza.
Nel febbraio scorso, alla vigilia del rientro in carcere per scontare un breve residuo di pena per una precedente condanna, Lo Verso s’è presentato ai carabinieri proponendosi come collaboratore di giustizia. Poi s’è seduto davanti ai giudici, cominciando a riempire verbali su verbali. Ha fatto scoprire un cimitero di Cosa Nostra, ha parlato di trame, delitti e affari. Recentemente, prima con la Procura di Caltanissetta poi con quella di Palermo, ha riferito dei rapporti tra mafia e politica; e ha parlato, tra gli altri nomi, anche dell’ex democristiano poi passato all’Udc e infine nella maggioranza che sostiene il governo Berlusconi, fino a salire sulla poltrona di ministro.
 Lo Verso ha riferito del sostegno che anche Saverio Romano avrebbe fornito alla famiglia Mandalà , quella che «governava» Villabate, altro centro vicino a Palermo dove i capimafia erano «nel cuore» di Provenzano. Il contenuto delle sue dichiarazioni è ancora segreto, altri interrogatori saranno necessari per approfondire quelle già  rese, ma è probabile che presto o tardi anche la testimonianza del nuovo pentito entri nel processo che il ministro dovrà  affrontare per decisione del giudice dell’indagine preliminare. Malgrado il diverso avviso della Procura di Palermo. Situazione anomala, ma non inedita.
Già  in altre occasioni — come nei processi che ha dovuto affrontare l’ex comandante del Ros dei carabinieri, Mario Mori— è capitato che l’accusa ritenesse gli elementi raccolti insufficienti ad affrontare un dibattimento, mentre il giudice ha deciso diversamente. Romano ha commentato collegando la scelta del gip all’investitura ricevuta dopo la scelta di sostenere, insieme ai cosiddetti Responsabili, il governo Berlusconi salvandolo dalla sfiducia. Ma è un collegamento che lascia perplessi. Di solito, sono le Procure ad essere accusate di fare giochi politici sotterranei, non i giudici.
Nel caso di Romano, inoltre, la decisione del gip di fissare l’udienza preliminare (da cui già  emergevano le sue perplessità  sulla richiesta di archiviazione) è arrivata prima della designazione dell’indagato a responsabile delle Politiche agricole. E all’udienza del 9 giugno scorso, col ministro insediato nel nuovo ufficio già  da tre mesi, la Procura ha insistito nel chiedere l’archiviazione. Ribadendo, però, quello che già  aveva scritto quasi un anno prima (quando nessuno poteva immaginare che Romano avrebbe giocato un ruolo deciso nel salvataggio del governo Berlusconi): c’erano diversi elem e n t i a d i m o s t r a z i o n e d e l l a «contiguità » dell’uomo politico con la famiglia mafiosa di Villabate, sebbene non considerati idonei a sostenere l’accusa con esito favorevole in un processo.
Considerazioni giuridiche, quelle dei magistrati della Procura, che però lasciavano ad altri lo spazio sufficiente per trarre qualche considerazione (e conclusione) politica. Per esempio che se pure non ci sono prove sufficienti per una condanna, i fatti ricostruiti potevano comunque bastare per sancire l’inopportunità  di affidare un incarico ministeriale a chi era stato un po’ troppo a contatto con boss e gregari del clan di Villabate. Soprattutto dopo la condanna definitiva di Totò Cuffaro, al termine di un processo dove il nome di Romano era ricorso in più di un’occasione.
Proprio la sentenza della Cassazione sull’ex governatore della Sicilia aveva spinto il giudice a riconsiderare la richiesta di archiviazione della Procura, e poi il presidente della Repubblica a manifestare pubblicamente il suo disappunto per la nomina del nuovo ministro dell’Agricoltura. In più, sul conto di Romano c’era già  l’indagine per corruzione scaturita dalle indagini sul riciclaggio del tesoro dell’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino. Anche per quell’inchiesta il neoministro confidava in una rapida e indolore soluzione. Ma la scelta della Procura di depositare le intercettazioni dove compare la voce di Romano, in vista della richiesta alla Camera dell’autorizzazione a utilizzarle, fa pensare a un altro esito.

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