Una crisi transatlantica

by Sergio Segio | 31 Luglio 2011 8:45

Loading

Nel 2008 Barack Obama vinse dopo due mandati consecutivi di George Bush jr. Appena al potere, Clinton cercò di varare una riforma sanitaria assai pasticciata, non vi riuscì ma suscitò le ire dei conservatori. Appena al potere, Obama ha cercato di varare una riforma sanitaria ancora più pasticciata: vi è riuscito ma ha suscitato ire ancora più furiose negli stessi conservatori. Così nelle elezioni di mezzo termine del 1994 i democratici presero una batosta dai «nuovi repubblicani» di estrema destra guidati da Newt Gingrich, che conquistarono alla grande la camera dei rappresentanti dopo che nei precedenti 62 anni solo per 4 anni non era stata controllata dai democratici. Nel 2010, nelle elezioni di mezzo termine i democratici hanno preso una botta micidiale soprattutto dalla destra estrema del Tea Party.
Nel 1995, la Camera dei rappresentanti dominata dai «nuovi repubblicani» rifiutò di firmare il bilancio proposto da Bill Clinton, rifiutò ogni compromesso e Gingrich minacciò di non votare l’aumento del limite del tetto del debito federale (l’avete già  sentita questa?). Perciò, dopo un drammatico discorso alla nazione, il presidente Clinton decise di «chiudere lo stato» (avete capito bene, chiudere nel senso in cui si chiude un negozio o si chiude un’impresa: negli Stati uniti queste cose si fanno e sembrano addirittura dovute). Chiudere lo stato significa mandare a casa tutti i dipendenti pubblici (tranne Fbi e personale sanitario). Clinton chiuse lo stato una prima volta dal 14 al 19 novembre 1995 e una seconda volta dal 16 dicembre al 6 gennaio del 1996, facendo ricadere tutta la colpa della chiusura sull’«irresponsabilità » e l’«estremismo» dei nuovi repubblicani che alla fine dovettero accettare un compromesso (assai di destra per la verità ), ma finirono per pagare carissimo questo scontro perché nelle presidenziali del novembre 1996 Clinton, che era stato massacrato nel voto di midterm, fu rieletto abbastanza trionfalmente.
Ora la storia si ripete e l’oggetto del contendere non è più (o non ancora) la legge finanziaria, ma è l’innalzamento del tetto del debito federale oltre la fatica soglia dei 14.000 miliardi di dollari.
In realtà  sempre di finanziaria si discute perché l’oggetto del contendere sono proprio i tagli alla spesa pubblica e le eventuali maggiori o nuove tasse. Per chi seguì le vicende dell’autunno 1995 è chiarissimo che Obama sta tentando di ripetere la manovra di Clinton, cerca cioè di apparire pronto a ogni compromesso, anche molto di destra (questa parte gli riesce bene perché gli è connaturata), ma l’«irresponsabilità » e l’«estremismo» dei repubblicani (soprattutto del Tea Party) vanificano ogni accordo e portano gli Stati uniti alla bancarotta e all’Armageddon del crollo delle Borse.
Opposto naturalmente è l’obiettivo dei repubblicani che vogliono far ricadere la colpa del mancato compromesso sulla proverbiale «spendacciosità » dei democratici. E’ evidente infatti che la loro indignazione sul debito pubblico è del tutto strumentale, visto che in tutti gli anni di Bush jr. hanno sempre spinto verso l’alto il disavanzo federale con le loro spese militari e i loro tagli alle tasse (dei super-ricchi), e sempre hanno votato con disciplina bulgara l’innalzamento del tetto del debito.
Insomma, siamo in pieno teatrino politico. All’americana, non all’italiana. Ma sempre teatrino, con le rituali drammatizzazioni, con le inevitabili trattative nella notte, gli spettacolari voti all’alba, l’ostentato, indefesso negoziare. Dove lo scopo non dichiarato di tutti non è trovare un compromesso, ma al contrario andare verso la bancarotta (chissà  perché dire default sembra meno grave). Se si guarda allo scontro di oggi in prospettiva delle presidenziali del novembre 2012, allora è comprensibile che Obama speri che i repubblicani siano tanto stolti da provocare il default, per poter addossarne a loro la responsabilità .
Il sito del Washington Post fa il conto alla rovescia che scade martedì 2 agosto alle 21 ora italiana. Ma tutti sanno che per quanto l’accordo sul tetto sia posticipato oltre la scadenza (e già  il New York Times sostiene che in realtà  ci sono soldi in cassa fino al 10 agosto), le conseguenze saranno molto meno gravi di quanto si dica (un po’ come avvenne per il millennium bug che avrebbe dovuto distruggere tutti i software alla mezzanotte del 31 gennaio 1999).
Perché è vero che gli Stati uniti sono indebitatissimi, ma è anche vero che nessuno può esigere da loro la restituzione del debito, e questo per due ragioni. Perché chi esigesse questo risarcimento provocherebbe il crollo della finanza mondiale. E perché gli Stati uniti spendono in armi più di tutto il resto del mondo messo insieme, e nessuno può fare la voce grossa con loro. In questo senso gli Usa si trovano nella posizione privilegiata di avere un debito in realtà  puramente nominale perché sono l’unico paese al mondo che possa non restituirlo.
Certo però che usare il tetto del debito federale come ulteriore teatrino della politica a scopo puramente elettorale è il segno della crisi che traversa la democrazia americana. Che per altro non è la sola: le vicende della Grecia, la cui democrazia è stata abrogata d’ufficio dai banchieri europei, dimostrano che questa crisi è transatlantica.

Post Views: 187

Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2011/07/una-crisi-transatlantica/