Abbattere statue: i vandali delle Rivoluzioni

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I Romani furono grandi tagliatori di teste, ma di teste vere, non di marmo o di bronzo. Certo, ogni tanto si sfogavano anche su quelle. Ma il fatto più delicato è che quelle vere, come notò una volta Mao Zedong, non ricrescono, mentre quelle finte si possono, all’occorrenza, rimettere a posto o sostituire.
Quando Ottaviano (futuro Augusto), Antonio e Lepido, autonominatisi «triumviri per rimettere a posto lo Stato» lanciarono le proscrizioni per liquidare i loro nemici politici (43 a.C.) l’ordine agli sgherri che catturavano i proscritti era di tagliar loro la testa e di portarla ai triumviri come prova sicura dell’effettiva eliminazione degli avversari. Nell’occasione uno dei decapitati fu Cicerone. L’eliminazione o decapitazione delle statue esige un lavoro molto sistematico, perciò rimasero in piedi statue e busti anche di imperatori «maledetti» come Tiberio, il cui cadavere, appena pronto, fu trascinato con gli uncini fino al Tevere e scaraventato nel fiume, ma di cui tuttora abbiamo qualche bel busto.
La mania di distruggere statue e decapitarle si è sviluppata con le rivoluzioni moderne. È noto ad esempio che i depositi del Louvre sono strapieni di statue a pezzi o decapitate e di teste marmoree staccate dal tronco per effetto di quel fenomeno che gli storici della Rivoluzione francese e prima di loro già  l’abate Grégoire, membro della Convenzione nazionale, hanno chiamato «vandalismo rivoluzionario». Principali vittime furono allora statue di re e di santi, di cui la Francia effettivamente abbondava. I lettori del Manzoni certo ricordano quel finale del capitolo XII dei Promessi Sposi dove Manzoni ironizza sulle traversie di una statua di Filippo II, opera di Andrea Biffi, che si trovava nella «nicchia dei dottori» in piazza dei Mercanti. Lì campeggiava il viso «serio, burbero, accipigliato» del sovrano spagnolo «che anche dal marmo imponeva un non so che di rispetto». Ma nel luglio del 1797, nella Milano giacobina, a quella statua «le fu levata la testa, le fu levato di mano lo scettro e sostituito a questo un pugnale; e alla statua fu messo nome Marco Bruto». Così — seguita Manzoni — «stette forse un paio d’anni; ma una mattina certuni che non avevan simpatia con Marco Bruto anzi dovevano avere con lui una ruggine segreta, gettarono una fune intorno alla statua, la tiraron giù e le fecero cento angherie» e alla fine, ridottala a un «torso informe», la trascinarono per le strade «e la ruzzolarono non so dove».
Leonardo Sciascia ha osservato giustamente che, nel descrivere queste angherie, Manzoni era ancora sotto l’effetto del massacro del ministro Prina, trucidato a Milano, al momento appunto della cacciata dei Francesi.
Togliere la testa alle statue è forse un gesto liberatorio ancorché alquanto irrazionale. La pagina manzoniana è istruttiva perché aiuta a comprendere che una testa (marmorea) tagliata oggi, può (metaforicamente) rinascere domani.
Tutti hanno in mente la foto cento volte ripubblicata del testone bronzeo di Mussolini sbriciolato tra due presse, per iniziativa di popolo, nell’euforia del dopo 25 luglio 1943. Esplosione di una repressa rabbia popolare: per lo meno di una parte non piccola, allora, del popolo esasperato dalla guerra non voluta e imposta dall’appena congedato dittatore. Naturalmente le immagini ducesche incastonate in bassorilievi rimasero, e tuttora rimangono in certe strutture, per esempio dei palazzi dell’Eur che avrebbero dovuto essere teatro della glorificazione del «Ventennale». Poiché la storia è sempre più complicata di quanto possa apparire dal destino delle statue, non è superfluo ricordare che, allora, a sparare sulle manifestazioni di piazza inneggianti alla caduta del dittatore furono truppe agli ordini di coloro che quel dittatore avevano congedato, come avvenne ad esempio nell’eccidio di Bari del 28 luglio del ’43.
Svolte contraddittorie di questo genere si sono verificate anche in occasioni successive. Meno presente alla memoria è la scena della demolizione della grande statua di Felix Dzerdzinski, fondatore della Ceka, antenata del Kgb, dopo che Eltsin prese il potere a Mosca nel dicembre 1991. Ma, in quell’euforia effimera, nessuno poteva prevedere che di lì a pochi anni Eltsin avrebbe fatto prendere a cannonate il Parlamento (gesto lievemente antidemocratico) e che, anni dopo, un militare formatosi nel Kgb sarebbe diventato il presidente della Russia, finalmente liberata dai «tiranni»…
Un’altra immagine molte volte vista è quella della colossale statua di Stalin abbattuta a Budapest nel corso della rivoluzione dell’ottobre 1956. Scena cui fa da contrappunto la statua di Stalin che giganteggia tuttora nella sua terra natale non lungi dalla sua casa-museo. E si ha un bel dire che Alessandro Magno fu sì un grande conquistatore ma almeno altrettanto grande come criminale (i congiurati della cosiddetta «congiura dei paggi» lo appresero sulla propria carne). Questo non impedisce all’odierna Macedonia, ridivenuta nazione indipendente dopo il caotico «riassetto» balcanico di questi anni, di onorarlo con una delle più alte statue equestri del mondo, commissionata a ditte italiane.
Hobbes diceva che il tiranno non esiste: è il sovrano nella definizione dei suoi nemici. Dell’alterna fortuna dei cosiddetti «tiranni» è emblema il caso del Bonaparte, del quale Manzoni diede un perplesso e rispettoso giudizio storico mentre i poco credibili «liberatori» inneggiavano, non proprio in buona fede, alla scomparsa (forse per veleno inglese) del «tiranno».


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