Articolo 18 messo al rogo

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Che il ministro del welfare Maurizio Sacconi voglia abbattere lo Statuto dei lavoratori, e con esso il suo incubo più grande – l’articolo 18 – lo dice perfino (anche se in termini più neutri e «scientifici») l’ufficio studi del Senato, nella sua analisi alle norme inserite nella manovra. Ieri è trapelata da Palazzo Madama una delle schede allestite dall’ufficio studi – quella relativa all’articolo 8 del decreto – e in essa è scritto che il comma 2 contiene «implicitamente» la possibilità  di deroga allo Statuto, «in quanto – citiamo sempre l’ufficio parlamentare – per la materia del recesso dal rapporto di lavoro, si fanno salve le norme sul licenziamento discriminatorio e sul licenziamento della lavoratrice in concomitanza del matrimonio». Per dovere di cronaca si aggiunge che l’ufficio stampa del Senato ha definito più tardi, dopo che la notizia era uscita su tutti i siti, quella scheda «solo una bozza», ma insomma così non ha fatto altro che confermare che l’interpretazione sulle nuove regole sacconiane non lascia adito a molti dubbi.
Vale la pena riportare tutto l’articolo, e vedere così dove si ipotizzi la possibilità  di derogare alle leggi sui licenziamenti (cioè appunto allo Statuto dei lavoratori e all’articolo 18) grazie a un accordo siglato sul piano nazionale o anche soltanto aziendale (e nonostante il ministro abbia spiegato qualche giorno fa che «l’articolo 18 non viene toccato»). Prendiamo il testo dalla Gazzetta ufficiale (decreto legge 13 agosto 2011, n. 138; «Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo»).
Il comma 1 prevede che «i contratti collettivi di lavoro sottoscritti a livello aziendale o territoriale da associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale ovvero dalle rappresentanze sindacali operanti in azienda possono realizzare specifiche intese finalizzate alla maggiore occupazione, alla qualità  dei contratti di lavoro, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività  e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all’avvio di nuove attività ». E fin qui si stabiliscono solo gli obiettivi di questi accordi.
Ecco poi il comma 2: «Le specifiche intese di cui al comma 1 possono riguardare la regolazione delle materie inerenti l’organizzazione del lavoro e della produzione incluse quelle relative: a) agli impianti audiovisivi e alla introduzione di nuove tecnologie; b) alle mansioni del lavoratore, alla classificazione e inquadramento del personale; c) ai contratti a termine, ai contratti a orario ridotto, modulato o flessibile, al regime della solidarietà  negli appalti e ai casi di ricorso alla somministrazione di lavoro; d) alla disciplina dell’orario di lavoro; e) alle modalità  di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni coordinate e continuative a progetto e le partite Iva, alla trasformazione e conversione dei contratti di lavoro e alle conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro, fatta eccezione per il licenziamento discriminatorio e il licenziamento della lavoratrice in concomitanza del matrimonio».
Come si può vedere, non si parla di «licenziamento», ma si prefigura la possibilità  di accordarsi sulle «conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro», ma proprio nel «fatta eccezione» il licenziamento poi in effetti è nominato. Quindi, insomma, di articolo 18 si parla, anche se sotto «mentite spoglie». Ancora, va notato che questi accordi possono stabilire novità  e quindi derogare su tutto quello che oggi è materia di contratti nazionali e leggi, anche riguardo i precari, per esempio (laddove si parla di rapporti a termine, partite Iva, cococò e cocoprò, somministrati). Insomma la liberalizzazione più totale e selvaggia, quella sempre sognata da Sacconi, che finalmente ha un pretesto – l’urgenza della crisi – per varare una sorta di legislazione di emergenza che però, se dovesse passare, ovviamente ci ritroveremo come sua acidissima eredità  una volta che la bufera sia passata.
C’è infine (comma 3), la norma «ad aziendam» voluta per la Fiat, che rende validi gli accordi di Pomigliano e Mirafiori, estendendoli erga omnes (anche ai lavoratori rappresentati dalla Fiom, nonostante questa non abbia firmato): «Le disposizioni contenute in contratti collettivi aziendali vigenti, approvati e sottoscritti prima dell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 tra le parti sociali, sono efficaci nei confronti di tutto il personale delle unità  produttive cui il contratto stesso si riferisce a condizione che sia stato approvato con votazione a maggioranza dei lavoratori».
Contro queste norme ieri ha parlato il Pd, con l’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano: «È grave – ha detto – che l’articolo 8 consenta implicitamente di derogare a leggi e contratti, compreso quindi lo Statuto dei lavoratori. Il Pd pretenderà  un’esplicita cancellazione dell’articolo con un apposito emendamento abrogativo. Sulle pensioni poi, non è accettabile che si pensi di innalzare l’età  addirittura a 67 anni».


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