Caccia al Raìs, vivo o morto
TRIPOLI — Cade la dittatura ma, tutt’altro che pacificata, la capitale vive momenti di grave incertezza. Il caos generato dalle continue raffiche in aria sparate dalle milizie dei ribelli vittoriosi, il persistere militante di sacche di resistenza lealiste, i tiri di missili, aggiunti al mosaico confuso di quartieri sicuri e altri totalmente pericolosi: tutto questo ricorda i momenti peggiori della Beirut sconvolta dalla guerra civile degli anni Ottanta.
Ieri mattina la città si è svegliata ancora stordita dall’euforia della presa di Bab al Aziziya (la cittadella fortificata del Colonnello) per scoprire, però, che sacche isolate di resistenza delle milizie filo-Gheddafi continuano a sparare e persino a costituire una minaccia. Per la maggioranza degli oltre 2 milioni di abitanti è ormai ovvio che il punto di non ritorno è stato superato già da un pezzo. «La dittatura di Gheddafi è finita per sempre», gridano euforici per la strada. Eppure il braccio di ferro della propaganda non sembra avere termine. Durante l’altra notte il Colonnello è riuscito a farsi sentire, lanciando due messaggi audio di sfida aperta alla rivoluzione. «Il nostro ritiro da Bab al Aziziya è stato solo un ripiegamento tattico» grida con la sua tipica voce roca e aggressiva al popolo libico. E torna per l’ennesima volta ad ammantare il suo carisma minaccioso con il fascino di Omar al Mukhtar. Nello storico nemico dell’occupazione coloniale militare italiana in Libia trova la determinazione irriducibile e l’esortazione a non arrendersi. Il suo è un appello alla resistenza e al combattimento fino alla fine, ad ogni costo. «Vittoria o martirio», inneggia ai suoi fedelissimi che ancora combattono. «Liberate Tripoli dai demoni», aggiunge.
Poco dopo, nel secondo bellicoso messaggio, spiega di essersi «fatto una passeggiata discreta per la capitale», insistendo così sul fatto che i ribelli sarebbero ben lontani dalla vittoria e anche dal controllo totale della capitale. Ma soprattutto che c’è ancora spazio per un’eventualità di vittoria. Anche la figlia Aisha si fa sentire e in un intenso audio se la prende con la Nato e le operazioni belliche straniere. Mussa Ibrahim, il volto più noto tra i portavoce del regime, aggiunge che colonne di invincibili starebbero arrivando da Sirte per rilanciare lo scontro nella capitale. A loro risponde, altrettanto duro da Bengasi, il leader del Consiglio nazionale transitorio Mustafa Abdel Jalil, che rilancia la caccia al Colonnello promettendo una taglia di 1,6 milioni di dollari a chi collabori a prenderlo «vivo o morto». Il comunicato si rivolge in particolare ai fedelissimi. «Se ci aiuterete a prenderlo, vi sarà l’amnistia», aggiunge esortando a disertare come in realtà hanno già fatto in tanti, da febbraio ad ora.
Verso le 11 di mattina cerchiamo di raggiungere il compound martoriato dalle bombe di Bab al Aziziya, ma sono gli stessi ribelli a fermare le auto civili e dei giornalisti. «Ci sono troppi cecchini, cadono le bombe, tornate indietro. Vi diremo noi quando la via sarà aperta», spiegano. Altri quartieri della città restano contesi. Abu Salim, il quartiere dove si trova la storica prigione che nel 1996 fu teatro dell’eccidio di 1.200 detenuti politici e la cui vicenda è stata centro dell’avvio della rivoluzione del 17 febbraio, resta luogo di feroci combattimenti. Fino a metà pomeriggio era rimasta incerta anche la sorte dei 35 giornalisti stranieri «ostaggi de facto» del regime all’hotel Rixos, a meno di un chilometro in linea d’aria da Bab al Aziziya. Da qui, verso mezzogiorno, i guerriglieri fedeli a Gheddafi hanno sequestrato anche due reporter che viaggiavano in auto. Ma poi un blitz dei ribelli ha permesso la liberazione di tutti i giornalisti.
Nel pomeriggio, quasi non ci sono civili per le strade. Non si vedono negozi aperti. Preoccupano i ragazzini, alcuni neppure quindicenni, che brandiscono kalashnikov come fossero racchette da tennis, privi di addestramento. Per oltre tre ore camminiamo lungo le viuzze tortuose della città vecchia circondata dai bastioni ottomani. Lunghe code di gente si assiepano dove ancora è possibile acquistare bottiglie di acqua. In molte zone gli acquedotti riversano dai rubinetti solo rigagnoli di liquami sabbiosi e puzzolenti.
Il fatto positivo è, per contro, che l’energia elettrica è ritornata nelle case per molte ore. Non si sa, tuttavia, per quanto tempo. Con il buio anche nella città vecchia, comunque, le strade si svuotano. L’impressione è che in molti casi siano le sparatorie caotiche dei ribelli a provocare gravi incidenti per «fuoco amico». Senza dubbio il pericolo dei cecchini di Gheddafi è immanente. Ma vi sono state circostanze in cui è bastata una voce, un sospetto, a spingere i ribelli a sparare contro le ombre, i fantasmi dei nemici, provocando la reazione disordinata e altrettanto letale delle pattuglie di ribelli. Fonti ospedaliere segnalano almeno 400 morti e 2 mila feriti in tre giorni di combattimenti. Mancano, tuttavia, dati ufficiali.
Tra le tante incertezze, anche quelle delle vendette contro i vecchi sostenitori del regime. Un drappello di ribelli armati costringe il proprietario di un hotel nella città vecchia ad accogliere un gruppo di reporter stranieri. Inizialmente, brandendo una foto di Gheddafi, si era opposto. Nella via accanto incontriamo Ibraim Turgya, ingegnere di 33 anni: «Ora piomberemo nel caos, proprio come a Bagdad dopo l’invasione americana del 2003. Una volta ero contro Gheddafi, adesso che vedo come vanno le cose comincio a rimpiangerlo» esclama. Vicino a lui un gruppetto di ribelli lo prende in giro. Ma nessuno gli torce un capello. Tutto sommato un segno positivo. Se soltanto dieci giorni fa un oppositore del regime avesse osato avanzare una critica sarebbe stato imprigionato. «È una delle cose belle della rivoluzione — sostiene un ragazzino con la maglietta inneggiante alle sommosse —. Non abbiamo più le spie del regime alle spalle che ci rendevano la vita un incubo».
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