Così la nuova schiavitù dei debiti incrociati crea il contagio globale

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New York – Siamo tutti schiavi dei debiti. Non solo il nostro debito pubblico, anche quelli altrui. È una delle facce della globalizzazione: i vasi comunicanti del credito non conoscono frontiere, la finanziarizzazione ha trasformato ciascuno di noi (spesso inconsapevolmente) in un debitore-creditore esposto ai giudizi dei mercati, l’interdipendenza avvinghia tutti. Ma questo è l’approdo finale di un’evoluzione voluta, che per lungo tempo abbiamo considerato positiva: la dipendenza dai mercati è stata teorizzata come un modo per rendere i nostri governi più oculati, meno demagogici e irresponsabili nella gestione delle finanze pubbliche. Se la Bce è costretta a “commissariare” il governo Berlusconi su mandato franco-tedesco e con la benedizione di Washington, è perché prima i mercati hanno sfiduciato la politica di bilancio italiana.
Angela Merkel, checché ne pensino i suoi elettori, non agisce per “altruismo europeista” quando deve farsi carico obtorto collo della crisi italiana, greca, spagnola: le banche tedesche detengono titoli pubblici italiani per l’equivalente di 190 miliardi di dollari, spagnoli per 238 miliardi, irlandesi per 184 miliardi, portoghesi per 47 e greci per 45 miliardi. In tutto superano i 500 miliardi di euro. Questo significa che la sola esposizione delle banche tedesche verso gli anelli deboli dell’eurozona supera ampiamente le risorse del fondo speciale varato a Bruxelles per tamponare le bancarotte sovrane. Chi ripianerebbe quelle perdite, se non gli azionisti tedeschi, i risparmiatori tedeschi, i contribuenti tedeschi? La Francia sta peggio, per la quantità  di titoli pubblici italiani posseduti dalle sue banche: più del doppio rispetto alle banche tedesche. Ecco perché la sfiducia dei mercati verso l’Italia ha già  lambito anche la Francia: attraverso le sue banche, la trasmissione del “male latino” sarebbe rapida e implacabile.
Questo si ripete, moltiplicato su scala ben più vasta, con il debito degli Stati Uniti. Il declassamento annunciato da Standard&Poor’s è un problema globale, perché i titoli del Tesoro Usa sono nelle riserve di tutte le banche centrali del pianeta, nei fondi comuni d’investimento europei (soprattutto i più “sicuri”, cioè i fondi monetari), nei fondi pensione, nel capitale prudenziale delle banche commerciali dove teniamo i nostri depositi. La dura reazione della Cina dopo il declassamento si spiega col fatto che la seconda economia mondiale è a sua volta vulnerabile: la sua banca centrale è pericolosamente squilibrata per il peso dominante dei Treasury Bond Usa nel suo bilancio. Qualunque perdita di valore – non parliamo di un default – sui titoli Usa si rifletterebbe nell’intero sistema bancario cinese. Rilanciando le critiche interne allo stesso partito comunista, dove un’ala nazionalista contesta da tempo il ruolo di “creditore” degli Stati Uniti.
Il debito americano è il più onnipresente nel resto del mondo. La Cina ne detiene quasi un decimo seguita da Giappone col 6,5%, Inghilterra col 2,4%, paesi Opec con 1,6%, Brasile 1,5%. Ma anche tutti gli altri paesi ne hanno la loro parte, il 10,7% è suddiviso in un elenco interminabile di altri creditori esteri “minori”. Sono frazioni percentuali per ciascun paese, ma sono frazioni pesanti perché misurate su un totale che si avvicina a 15.000 miliardi di dollari. In valore assoluto gli investimenti cinesi in titoli del debito Usa si avvicinano a 1.300 miliardi (inclusi quelli di Hong Kong), il Giappone supera i 912 miliardi. Alcuni paesi sono esposti anche attraverso investimenti in piazze finanziarie come Londra e Zurigo, il che spiega l’alta quota di debito americano in Inghilterra e Svizzera.
Come siamo arrivati fin qui? Per quanto riguarda il debito Usa, la sua diffusione globale è la confluenza di diverse evoluzioni. Da una parte c’è la dimensione assoluta di quel debito che cresce a gran velocità  (era la metà  di quello attuale, 7.800 miliardi, nel 2005) e non può essere tutta finanziata all’interno perché l’America non risparmia abbastanza. L’altra faccia di questa carenza di risparmio domestico, è l’eccesso di importazioni che ha arricchito paesi come Cina, Giappone, Brasile: di qui i loro enormi attivi commerciali che vanno investiti in qualche modo. E i titoli del Tesoro Usa hanno il vantaggio di rappresentare la più grossa economia mondiale; inoltre sono molto “liquidi”, si comprano e vendono molto facilmente nella più avanzata piazza finanziaria del pianeta. L’internazionalizzazione del debito americano aumenta al ritmo del 10% annuo. L’origine è antica: risale al fenomeno degli euro-dollari ai tempi dell’Amministrazione Nixon che doveva finanziare all’estero la guerra del Vietnam, proseguì con i petro-dollari quando l’Amministrazione Carter dovette fronteggiare il primo shock petrolifero. Il pensiero neoliberista, ma anche la sinistra ai tempi di Bill Clinton e Tony Blair, ha sposato l’idea che i mercati “disciplinano” gli Stati. Non è del tutto sbagliato: il debito pubblico italiano cresceva anche all’epoca delle restrizioni ai movimenti di capitali, ma veniva finanziato d’autorità  dalle banche, cioè in ultima istanza dai risparmiatori. Senza che neppure se ne accorgessero.


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