Da Mosca alla disillusione sulla via di un eterno ritorno
«Volevamo il meglio e invece ci è scappato il solito». È a dir poco emblematico che la celebre frase pronunciata dal primo ministro russo Viktor Cernomyrdin all’indomani della riforma monetaria del 1993 echeggi come una sorta di mantra nei due libri che, forse, più di altri restituiscono il senso di quanto sta accadendo (o non accadendo) oggi in Russia. L’autoironica variante locale della proverbiale strada per l’inferno lastricata di buone intenzioni torna, infatti, sia nell’appassionante 12 che hanno detto no. La lotta per la libertà nella Russia di Valerij Panjushkin (edito da e/o nella traduzione di Claudia Valentini rivista da Leonardo Marcello Pignataro), sia nel più disincantato Russia senz’anima? (tradotto per Zandonai da Chiara Marmugi) della giornalista viennese Susanne Scholl, che la utilizza addirittura come epigrafe. Accomunati da eguale rigore e da una struttura narrativa che fa sfilare a turno davanti agli occhi del lettore protagonisti e comparse della storia russa recente, i reportage di Panjushkin e della Scholl arrivano a conclusioni differenti per quanto riguarda l’interpretazione dell’aforisma di Cernomyrdin, che alcuni in realtà attribuiscono a commentatori più illustri – dal classico della satira ottocentesca Michail Sal’tykov-Scedrin al principe anarchico Petr Kropotkin. Se per l’austriaca Scholl quell’inquietante «solito» che subentra inevitabilmente al «meglio» allude agli eterni ritorni della storia russa e a una sua atavica non riformabilità (non a caso, l’altro esergo è una citazione di Karamzin «La Russia ha due problemi: le strade dissestate e gli idioti»), per il leningradese Panjushkin invece tale constatazione si lega in primo luogo al fallito esperimento liberal-democratico degli anni ’90 e al rapidissimo ritorno a quel populismo oligarchico dalle mai sopite aspirazioni imperiali che appare tuttora così in voga.
D’altro canto, se Susanne Scholl (per vent’anni corrispondente da Mosca per l’emittente Orf) preferisce dedicarsi alla ampia zona grigia della società russa, indifferente alla politica perché troppo concentrata sui problemi della sopravvivenza quotidiana, il quarantaduenne collaboratore di «Kommersant», «Vedomosti» e «Snob» ripercorre invece le recenti incarnazioni della figura quanto mai attuale del dissidente, inteso nella sua valenza etimologica: colui la cui voce risuona fatalmente fuori dal coro («nesoglasnyj»). E lo fa affidandosi a un numero – il dodici – fortemente simbolico che, al di là degli immediati riferimenti evangelici, evoca il poema di Aleksandr Blok, ma anche l’omonimo e controverso film girato da Nikita Michalkov nel 2007 e centrato sul processo a un diciottenne ceceno accusato di aver ucciso il padre adottivo, ufficiale russo di stanza a Groznyj. Maneggiando con estrema perizia la trama dei possibili nessi intertestuali, Panjushkin confeziona un testo incalzante che non cede a tentazioni autocommiserative, inanellando i ritratti di undici oppositori racchiusi in uno spettro politico decisamente ampio, che va dal neoliberismo di Andrej Illarionov, consigliere economico di Putin dal 2000 al 2005, al nazionalbolscevismo di Maksim Gromov.
Undici cammei a loro volta incastonati in una cornice narrativa – quella offerta dalle «marce dei dissidenti» che si svolsero il 24 novembre 2007 a Mosca e il giorno seguente a Pietroburgo – sanciscono la posizione dell’autore come «persona coinvolta nei fatti», ovvero al fianco dei manifestanti sotto le manganellate delle unità speciali Omon. Rimpiazzando lo scrittore Limonov come eventuale dodicesimo «eroe» («impossibile scrivere qualcosa su Eduard che non abbia già detto lui stesso», si è giustificato Panjushkin ai microfoni di Radio Svoboda), l’autore ne occupa il posto lasciato vacante non tanto per malinteso protagonismo, quanto per evidenziare come in Russia il ruolo della stampa non asservita non possa che essere ipso facto militante. Ne consegue una calcolata alternanza di pathos (ispirato alla memorialistica di fine ‘800 dei terroristi di Narodnaja Volja e alla figura del rivoluzionario che si sacrifica per redimere il popolo) e osservazioni lapidarie non di rado indirizzate verso i propri stessi compagni, come nel passo in cui Masha Gajdar e Marina Litvinovic si contendono la scena per essere inquadrate accanto a Garri Kasparov, leader della coalizione «Un’altra Russia», appena scarcerato. Per non parlare delle frecciate ai colleghi delle televisioni occidentali che per le loro riprese prediligono lo sfondo di scassate macchine d’epoca sovietica sempre più introvabili, almeno nella capitale («è evidente che, secondo loro, nel filmato Mosca deve sembrare L’Avana su cui però è piombato un ghiacciaio»).
Troppo lucido per nutrire soverchie illusioni sulla possibilità di trasformare l’opposizione al regime in un fenomeno di massa, Panjushkin concentra la propria attenzione sull’atto di ribellione o di dissenso individuale e sul valore ideale di tali testimonianze. Esemplari in questo senso le esperienze della stessa Gajdar che nell’inverno del 2006 si calò dal ponte prospiciente il Cremlino per protestare contro l’annullamento delle elezioni alla carica di governatore, o Il’ja Jashin, coordinatore dei giovani democratici di «Jabloko», che dopo la débà¢cle subita nel 2003, si addentrò nella provincia più remota per capire «che razza di paese fosse quello in cui non si riusciva a trovare un 5% che votasse per un partito che sosteneva la pace, la libertà , la democrazia, il rispetto della dignità umana». Da questo punto di vista è interessante confrontare le sue conclusioni con le testimonianze raccolte della Scholl. Se, in fondo, non appare più di tanto bizzarro il paragone istituito dai due anziani contadini, che hanno accolto Jashin nella loro izba, tra il presidente Putin e un fenomeno atmosferico come la neve o la grandine, che imperversa per poi cessare, ben più sconcertante è ritrovare la stessa immagine sulle labbra di una delle più celebri scrittrici russe contemporanee, nientemeno che Ljudmila Ulickaja. «La politica è come il tempo. A volte è molto brutto, ma non ci si può fare niente», taglia corto di fronte a una domanda provocatoria della giornalista austriaca, che le aveva chiesto se il suo rifiuto di pronunciarsi sulla situazione russa non equivalesse a un esilio volontario nella sfera privata.
Metafore meteorologiche a parte, Russia senz’anima? alterna inedite incursioni nelle storie quotidiane della gente comune a incontri con volti più o meno noti dell’intelligencija come Galina Mursalieva (giornalista di «Novaja gazeta» e vicina di scrivania di Anna Politkovskaja), o Alla Gerber, presidentessa della semisconosciuta Fondazione per l’Olocausto, la figlia adottiva di Chruscev Svetlana e la stessa Ulickaja. Sullo sfondo di questa nutrita rappresentanza femminile (non a caso, la Scholl torna ripetutamente sulla presenza assai effimera della figura paterna nella società sovietica e russa) si proietta la visita alla famiglia Erofeev, qui presentata nelle sue tre ipostasi maschili: il capostipite Vladimir, diplomatico nonché interprete personale di Stalin; Viktor, primogenito reprobo che nel 1979 mise in imbarazzo il genitore con la sua «criminale» partecipazione all’almanacco samizdat «Metropol», e infine il figlio minore Andrej, ex direttore della sezione contemporanea della galleria Tret’jakov, caduto in disgrazia per aver curato una mostra tacciata di blasfemia. Ma il pregio maggiore di Russia senz’anima? risiede probabilmente nelle sue osservazioni all’apparenza più frivole e disimpegnate, nella capacità di evocare i realia meno noti di Mosca – megalopoli asfissiante «creata non per le persone», come amano ripetere i suoi stessi abitanti con una punta di masochismo. Un dono che fa somigliare il libro della Scholl a una madeleine proustiana per chiunque abbia avuto la ventura di confrontarsi con la capitale russa in tempi recenti.
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