Da “genio” a “fumoso” la parabola di Giulio sfiduciato da amici e mercati

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ROMA – Da Superministro, temuto e osannato, a ministro dimezzato, osteggiato, mal sopportato e anche dileggiato. Disarcionato o commissariato. L’ascesa del divino Giulio della seconda Repubblica è comunque giunta al capolinea. La manovra approvata ieri sera a Palazzo Chigi, nel giorno in cui il debito pubblico tocca la cifra stratosferica di 1.901 miliardi, l’hanno imposta i mercati, i tecnocrati di Bruxelles, i banchieri di Francoforte, il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, gli investitori globali e quel che resta dei poteri forti nazionali. Gli interventi l’hanno decisi e dettati i suoi nemici di un tempo. Giulio Tremonti, tributarista di Sondrio, irascibile intellettuale con incontenibili ambizioni politiche, ha ceduto. Mollato da molti, senza più alleati. E neanche estimatori. Uno alla volta si sono sfilati tutti, dal suo mentore, il Cavalier Silvio Berlusconi («Tremonti è un genio»), al popolano e rancoroso Umberto Bossi, sedotto – una volta – dal raffinato argomentare del professore (a favore del protezionismo e del localismo padano e contro il neo imperialismo cinese figlio del “mercatismo”) ma che ora, a un passo dal baratro, trova niente più che «fumoso».
Giulio Tremonti è diventato un ministro solo. E da solo deciderà  se restare, tollerato, nel governo e costruire poi la sua rivincita, oppure lasciare, senza rimpianti, la poltrona che fu di Quintino Sella, come già  fece nel 2004 colpito e affondato pro tempore da quel che allora era il sub-governo Fini-Casini-Follini. Più probabile che provi a restare per cadere insieme a tutto l’esecutivo retto dai voti di Scilipoti e compagni. Di certo Giulio Tremonti non darà  argomenti ai suoi nemici interni. Ha già  assaggiato – per sua stessa ammissione – la “macchina del fango”. La pigione per la casa in Via Campo Marzio pagata brevi manu al suo ex consigliere politico Marco Milanese è stato un «errore», ha ammesso ancorché in ritardo. Ma il ministro ha resistito per non essere travolto da quella che considera – con eccessiva benevolenza – nulla più che una leggerezza, mentre nel suo partito si erano già  alzati gli avvoltoi.
Dunque, c’è un prima e un dopo nell’ultima cavalcata tremontiana al potere. E tra loro – il prima e il dopo – sono in autentica contraddizione. C’è – prima – l’intuizione politico-intellettuale sugli effetti in Occidente della nuova globalizzazione. Il suo libro La paura e la speranza diventa nel 2008 un successo editoriale ma anche il manifesto della nuova destra italiana di fronte alla «vertigine della modernità », di fronte alla «frantumazione» degli individui. Tremonti adombrò la nuova crisi e ne diede una risposta protezionistica impregnata di valori conservatori (Dio, patria, famiglia). Offrì così un contributo non indifferente a che il centro destra sfondasse tra e ceti produttivi vecchi e nuovi, le partite Iva senza tutele e i medi imprenditori orientati alla concorrenza. Poi, Giulio Tremonti, è arrivato a Via XX Settembre, sede del ministero dell’Economia, dove si concentrano le competenze un tempo delle Finanze, del Tesoro, delle Partecipazioni statali e del Bilancio. Un Superministro. Che si è sdoppiato: nei convegni rispolverava i principi dell’economia sociale di mercato nata alla Scuola di Friburgo e così ipnotizzava le platee, una volta quella dei giovani ciellini del Meeting di Rimini, un’altra gli artigiani o gli imprenditori del varesotto. Citava, e rivalutava, Carlo Marx e forse anche per questo i liberisti del suo partito l’hanno etichettato come «socialista»; dialogava con Papa Ratzinger. Ma poi nelle stanze del ministero, circondato dai tecnici della Ragioneria, si convertì all’ortodossia del rigore europeista. Come il suo predecessore Tommaso Padoa-Schioppa ha messo in campo la spending review di taglio anglosassone. Roba più o meno incomprensibile per la base leghista abituata alle semplificazioni del verbo populista. Le prime crepe, malcelate, con il partito del Carroccio ma anche con quel blocco sociale di vecchio e nuovo lavoro autonomo tanto marchiato dal centrodestra.
Ha minimizzato, in Patria, le condizioni del bilancio pubblico, mentre nelle capitali europee cercava alleanze, angosciato, in tempi non sospetti, dal possibile ampliarsi dello spread tra i Bund tedeschi e i nostri Btp. Ha proposto – senza successo – insieme al presidente dell’Eurogruppo Jean-Claude Juncker l’emissione degli euro-bond. Ha “raccontato” che il piccolo debito privato delle famiglie italiane ci rendeva più forti degli altri. Ha imposto i tagli lineari a tutti, senza avere il coraggio di scelte politiche, nella presunzione che la sua maggioranza non l’avrebbe seguito lungo un eventuale sentiero di riforme. E’ riuscito a farsi approvare in meno di dieci minuti le legge di Bilancio, seminando malumori e minacciando sempre le dimissioni. Ma allora – solo qualche mese fa – il ministro era intoccabile. Poi è arrivata la Nuova Crisi. I mercati – quelli che l’antimercatista Giulio Tremonti aveva tentato di addomesticare – non si fidano più del ministro che “odia” gli economisti. I banchieri non vogliono pagare il conto dell’inaffidabilità  dello Stato italiano. Così anche gli industriali. Tremonti è rimasto davvero solo. E non è più intoccabile.


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