Gaffe, insulti e contraddizioni Il lungo crepuscolo del Senatur mette in imbarazzo la base lumbard

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CALALZO – Resterà  un’immagine, di questa scialbissima estate bossiana, a raccontare meglio di mille parole il crepuscolo del Senatùr. Lui seduto a un tavolo all’aperto dell’hotel Ferrovia, insieme a Calderoli e Tremonti, e davanti a loro gli uomini della scorta che fanno muro, per impedire a chicchessia ogni contatto con il terzetto. Mai successo. Finora le vacanze di Bossi erano cavalcate trionfali, bagni di folla non solo ai comizi. Erano processioni continue di militanti leghisti e anche semplici cittadini che accorrevano ovunque il Senatùr si palesasse. E, certo, nessuno avrebbe neppure osato immaginare che un comizio programmato potesse saltare per il timore fondato di contestazioni, com’è invece successo a Calalzo. Proprio lì, tra le montagne del Cadore, durante l’ultima esternazione con i giornalisti – prima della fuga di giovedì notte seguita alla cena blindata per il compleanno di Tremonti: è tornato un giorno prima del previsto nella sua Gemonio – Bossi si è abbandonato a una confessione: «Sono stanco morto, dopo il varo della manovra ero distrutto, avevo solo voglia di dormire per tre giorni di fila». E invece ha voluto affrontare lo stesso il pur ridimensionato tour agostano. E ha toccato con mano che qualcosa si è rotto, che la magia del carisma comincia a venir meno.
Tuttavia non sono tanto, o solo, le contestazioni a certificare un certo appannamento di Bossi, ad annunciare l’autunno del Patriarca. Non sono i venti militanti del Pd che protestano davanti al suo albergo, e neppure le esigue schiere di ex leghisti convertiti all’autonomismo più spinto: a contare davvero è quel che non succede più rispetto a quello che è successo in questi giorni. E allora val la pena di raccontare la strana atmosfera che si respirava quest’anno a Ponte di Legno, tradizionale meta del ferragosto bossiano. Lui all’hotel Mirella ci è arrivato solo il 15 notte, in ritardo di un giorno rispetto al programma (ma gli altri anni si presentava il 13, con tutta la famiglia al seguito, mentre stavolta c’è stata solo una fugace apparizione del figlio Renzo). Ci è arrivato dopo il comizio di Ferragosto, quello degli insulti – poi rimangiati – a Brunetta– e delle battute irriverenti sulla senatrice a vita Rita Levi Moltalcini. E quando si è seduto al bar, i giornalisti hanno potuto avvicinarlo subito: sparita la folla di ammiratori, questuanti, gente in vacanza smaniosa di stringergli la mano, e qualcuno della corte ha sibilato parole un tempo impronunciabili: «Non se lo fila più nessuno».
Battuta irriverente e forse ingenerosa, ma l’impressione è proprio questa. Forse c’entra anche il sorprendente rosario di uscite contraddittorie messe in fila negli ultimi mesi. Cominciò con gli strali lanciati a Napolitano, che pretendeva un passaggio parlamentare dopo la nomina di ministri esterni alla maggioranza, ma il giorno dopo, a Novara, lui scusò con il presidente, “una persona saggia”. Poi fu il caso Papa, il deputato pdl che a giorni alterni Bossi voleva “in galera” e poi salvato dal voto parlamentare. Più di recente, con l’aggravarsi della crisi economica, gli ondeggiamenti sull’Europa: «Complotta contro di noi», anzi no, ci salva perché «la Bce comprerà  i nostri titoli». Per finire con lo zig zag sulle pensioni: bisogna salvarle anche a costo di sfiancare i Comuni con i tagli della manovra, e chi dice il contrario, anche nella Lega, «si comporta come i terroni abituati all’assistenzialismo romano, mentre noi da Roma vogliamo la libertà ».
Ondeggiamenti che nel corpo vivo della Lega vengono vissuti con grande imbarazzo. Ormai è un ritornello, lo ammettono in molti, purché protetti dall’anonimato: «Le cose che dice l’Umberto dipendono da chi è stato il suo ultimo interlocutore». Vero o falso che sia, una cosa è certa: per la prima volta nella sua quasi trentennale storia, la Lega, meglio: una sua parte, sembra archiviare il monolitismo di cui i tutti i leghisti sono sempre stati orgogliosi. Lo si è visto, per la prima volta in modo scoperto, prima dell’estate, quando nel gruppo parlamentare di Montecitorio si raccolsero le firme per mettere in discussione la guida di Marco Reguzzoni, iperbossiano messo lì un anno prima proprio dal Capo nonostante la maggioranza dei deputati in camicia verde, appoggiati da Bobo Maroni, fosse contraria. Il giorno prima il Senatùr disse che i deputati leghisti erano «maggiorenni e vaccinati», dunque liberi di scegliere, ma al dunque Bossi impose di nuovo la sua mano sul capo di Reguzzoni. Che rimase presidente del gruppo. Ma alla riunione volarono parole grosse e pure qualche spintone tra esponenti delle diverse fazioni, mentre il segretario federale accusò di “metodi mafiosi” chi aveva promosso la raccolta di firme. Maroni non aveva vinto, e del resto non poteva. Lo spiegava così, l’altra sera, un leghista a Calalzo: «Il Capo non si può ancora discutere». «Ancora». Fino a quando?


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