Il lungo day after dell’America

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La New York dei suoi figli e quella in cui lei è cresciuto sono molto diverse?
«Sì. Ma non posso veramente generalizzare. Ci sentivamo su una specie di piedistallo, c’era una sorta di fede ben radicata nell’America di allora che ne faceva una nazione esemplare e con un futuro assicurato. Paragonata ad altri Paesi, dopo la Seconda guerra mondiale l’America era il faro che con il Piano Marshall guidava la ricostruzione del resto del mondo. Pare che la gente fosse affascinata da quella combinazione di capitalismo e democrazia, o per lo meno dall’ideale di democrazia, nonostante i risvolti squallidi come il maccartismo. All’epoca era proprio qualcosa di tangibile, sia a New York che nel resto del Paese. Questo sogno è ormai kaputt. Ora come ora è molto difficile – a meno di non essere sotto ipnosi – annuire dicendo: “Sì, il futuro dell’America è forte dei suoi ideali democratici, chiunque ha una possibilità “. Perché è dall’epoca di Reagan che assistiamo a un’incredibile polarizzazione, perfino nel nostro quartiere di Lower Manhattan. I ricchi, oggi, sono ancora più ricchi, ormai è una cosa grottesca. La classe media è stata così bistrattata che la maggioranza delle persone è finita nella classe sociale inferiore. La prospettiva di un lavoro sicuro si è volatilizzata. I ragazzi ne sono consapevoli. Quindi la situazione è molto diversa, ora. Nel mio quartiere, per esempio: io vivo proprio al confine tra SoHo e TriBeCa, due aree della città  abbastanza dinamiche, dove sono venuti ad abitare i nuovi ricchi. Noi vivevamo lì prima di loro e io sono più ricco di quanto non lo fossi nel 1976, cosa che mi ha permesso di restare nel quartiere. Ma proprio in mezzo a SoHo e TriBeCa c’è Canal Street».
«Canal Street è sempre stata una terra di nessuno popolata da cinesi, coreani, altri asiatici, mafiosi – solo Dio sa cosa succede laggiù – e africani che vendono borse e orologi contraffatti. Uno straordinario bazar del Terzo Mondo.
Qualche mese fa sono uscito dalla mia bolla abbastanza a lungo da fare una passeggiata in Canal Street. C’è da dire che di solito passo le mie giornate nel ristretto perimetro tra casa nostra e il mio studio: due isolati e una caffetteria a metà  strada, dove prendo il caffè la mattina e incontro le persone quando ho un appuntamento. Ecco la mia New York, oggi: tutta in quei due isolati. Quella volta, comunque, mi sono incamminato nella direzione opposta e ho imboccato Canal Street. Tutto a un tratto, nel bel mezzo di quella terra di nessuno, sono incappato in un nuovo Hotel Sheraton. È davvero strano, non riesco a fare un paragone. Uno Sheraton così elegante, proprio in mezzo a Canal Street: ecco un sintomo di quel cambiamento che ci ha portato ad avere Disneyland nel cuore di Manhattan. Ora tutti devono sgomberare. Non c’è più posto per persone che non possono permettersi un biglietto d’entrata a Disneyland».
Per conoscere meglio il mondo, i giovani americani devono smettere di guardare Mtv e la Abc? Perché quello è il vostro mondo, il mondo americano.
«È il mondo americano, ma è anche il mondo cinese. Viviamo in un’epoca in cui queste distinzioni sono molto interessanti, ma non proprio fondamentali. A dire il vero, la sola distinzione che conta è quella tra chi è totalmente e disperatamente povero e chi no. Perché tutti gli altri hanno internet, e una volta che si ha internet…»
Internet è il Nuovo Mondo?
«Lo è, davvero. È la Luna. Tutti volevano andare sulla Luna quando ero piccolo. La Luna è Internet».
Lei pensa che New York continui a essere il posto giusto per stare al passo con quello che succede?
«Certo. È a New York che accade ed è da New York che si propaga».
Oggi votano la metà  degli americani. Se un domani, tra dieci, vent’anni, si scendesse al 20 o al 40 % della partecipazione, temerebbe per la democrazia americana?
«Oh, ma il concetto di voto è già  bello che andato. Non si possono avere due partiti, entrambi di destra, di cui uno foraggiato dalle lobby. Una delle cose peggiori che siano capitate all’America in questi ultimi anni è la decisione della Corte Suprema che permette alle aziende private di finanziare illimitatamente e in segreto una campagna elettorale. Le cose, così, cambiano del tutto. Vuol dire che le società  possono donare fondi con gli stessi diritti di un semplice cittadino. Significa che solo due partiti possono avere spazio nel dibattito. Non può esistere un terzo partito in corsa per la Presidenza. Il nostro sistema di voto si basa su questo stupido collegio elettorale. Si vota per dei rappresentanti perché, ovviamente, non ci si arrischia a lasciare il potere nelle mani del popolo. Non serve a niente votare così, contrariamente al suffragio universale. Il sistema americano è concepito in modo tale da restare nelle mani dei più ricchi. Nemmeno una ribellione è contemplabile. Per tornare un attimo al passato: quello che più mi ha spaventato è stato vedere i mezzi dell’esercito in Canal Street dopo l’11 settembre. Per me è stata la dimostrazione che qualcosa si era spezzato. In America se vuoi manifestare devi farti un bel po’ di chilometri di treno fino a Washington: una città  insulsa che non assomiglia neanche lontanamente a una capitale. È un po’ come se la capitale della Francia fosse Lione, s’immagini. È chiaro che non si può fare niente seguendo la via della democrazia. In questo senso i fatti recenti di WikiLeaks sono davvero interessanti. È il segnale che il futuro è su internet».
Capisce quello che molte persone provano nei confronti dell’America? Un sentimento duplice di amore e odio?
«Eccome, provo lo stesso per mia moglie!».
Pensa che l’America sia ancora destinata a qualcosa di speciale? È ancora una guida per il resto del mondo?
«Quella sensazione di essere un popolo eletto (non in senso religioso) comune a tutti gli americani… Non erano nient’altro che violenza e saccheggi, lo chieda agli indiani che ricevevano coperte infette dal vaiolo, o alle popolazioni che vivevano nello Stretto di Panama, o alle vittime della guerra ispano-americana. Penso che il sogno, il famoso sogno americano, ormai serva solo ad alimentare l’ipnosi esercitata da movimenti come il Tea Party. Nel mondo reale, dove le persone devono barcamenarsi, il sogno non esiste più. Ora si cerca di capire cosa sta succedendo sotto il cofano di questo scintillante macchinone americano che più nessuno può guidare, perché ha la benzina agli sgoccioli ed è troppo grosso per riuscire a far manovra».
Nel passato si è visto che Paesi come la Germania e l’Italia possono smettere di essere delle democrazie. Anche l’America corre questo rischio?
«Penso che non sia più un rischio, ma un fatto compiuto».
Non c’è libertà  di religione? Non c’è la libertà  di scegliere per chi votare?
«Libertà  di religione? Mmm… sì, direi, sempre che tu non sia musulmano. E comunque è difficile non avere una religione in questo Paese, quando questo fa parte del principio di libertà . Naturalmente è meglio vivere qui che a Singapore, che è altrettanto capitalista».
Con così tanta polizia?
«Sì, esattamente. Come ho detto, la cosa che più mi ha spaventato dopo l’11 settembre – a parte l’orribile sensazione che il mondo stesse andando a rotoli – è stato vedere come il guanto di velluto, scomparendo, abbia rivelato un pugno di ferro. Anche se l’esercito era lì per offrire soccorso, erano sempre dei soldati in pieno centro a Manhattan. Ed è allucinante che New York possa passare sotto la legge marziale in così poco tempo. Questo mi ha spaventato tanto quanto l’attentato terroristico. Ora, è chiaro che questo fa parte dell’America. Che cosa faranno in caso di sommosse? Instaureranno la legge marziale. Ma come può non ribellarsi la gente quando non gli si dà  un posto dove vivere, o una prospettiva per il futuro diversa da quella, promossa da certi programmi come America’s Next Top Model, di identificarsi con qualche super riccone e diventare il prossimo Donald Trump?»
Quando le chiedono che cosa sta succedendo in America, le suona come una domanda strana? Come una cosa molto europea?
«Gli americani non si interrogano sull’America più di quanto non lo faccia io. Il concetto di America non gli interessa. Grazie a decenni e decenni di istruzione scadente, forse molti di loro credono ancora nel sogno americano».
Una domanda più personale: nel suo quartiere, a New York, può fumare come fa ora?
«No. Negli anni mi hanno cacciato e non fa che peggiorare. Forse, in realtà , si riassume tutto in questo, la restrizione delle libertà , la fine della democrazia. Su questo punto, mi dico sempre che dovrei unirmi alle fila del Tea Party: scommetto che con le sigarette hanno molti meno problemi della cosiddetta sinistra americana. Le limitazioni anti-fumo vengono dalla sinistra, e non dalla destra, che è troppo felice di intascarsi i soldi dell’industria del tabacco».
Si considera mezzo americano e mezzo europeo?
«Mi considero un apolide con una predisposizione a restare lì dove si trova».
Quindi, prima di tutto, è un newyorchese?
«Sì, qualsiasi cosa voglia dire. Ma per voi è molto più romantico di quanto non lo sia per il sottoscritto. Per me è solo il luogo in cui vivo».
Chi ha fatto di più per l’America? Steve Jobs o Barack Obama?
«Sa che le dico? In questi giorni il mio Mac mi sta facendo impazzire. Il design è favoloso, ma non mi piace come la Apple sta impostando il suo futuro. Mi sto rendendo conto che l’obsolescenza programmata insita in tutti i prodotti contribuisce a un incredibile spreco di dispositivi».
E Bill Gates?
«È un po’ come Joseph Pulitzer, anzi no, è più come Nobel. Sì, prendiamo Nobel che ha inventato la dinamite e poi ha passato il resto della vita a cercare di farsi perdonare».
Come vede il futuro?
«Fortunatamente sono stato risparmiato dalla crescente disparità  che si sta creando tra ricchi e poveri. Questo m’impone di essere vigile, di individuare la strada più sicura da intraprendere. Posso fare donazioni a questo o a quest’altro gruppo. WikiLeaks merita un po’ di soldi in questo momento; ecco cosa posso fare. È un modo per investire nel futuro. A parte questo, sono libero di esplorare la Rete e prenderne ispirazione per il mio lavoro, fin tanto che i vecchi media continueranno a esistere e una debole scintilla della vecchia America brillerà  ancora. Perché i miei lavori futuri saranno sempre destinati a un supporto cartaceo. Me ne rallegro».
Che progetti ha?
«Mi sono sforzato di arrivare fino all’orlo del baratro. Ora vedrò quello che c’è dall’altra parte. Ci tengo molto. Mi giro e fisso quel dannato topo, Maus, che ormai mi insegue da decenni. È il venticinquesimo anniversario dalla prima edizione di Maus. Sei anni fa ho accettato di fare un libro e ho passato gli ultimi cinque anni e mezzo a evitarlo. Metamaus è una guida, un addendum. È una specie di bonus con un dvd in cui saranno riportate le conversazioni con mio padre. Il libro è venuto molto meglio di quanto mi aspettassi, ma l’ho rifuggito così a lungo che quando è stato il momento di mettermici, mi ha assorbito totalmente. Vi racconto, all’incirca, che per vent’anni sono stato perseguitato da persone che volevano parlarmi di Maus. Di fatto quello che mi chiedevano ogni volta si poteva riassumere in tre domande: perché un fumetto? Perché topi? Perché l’Olocausto? Quindi mi sono detto che se riuscivo a rispondere in modo esauriente a queste tre domande la prossima volta che qualcuno mi importunerà  potrò rispondere “Mai più”, come per Auschwitz. Vediamo se riuscirò a liberarmi dalla maschera di Maus che porto saldata in faccia. Indossarla è stato un privilegio, ma alle volte faccio fatica a respirare. Dopodiché mi aspetta ancora un progetto e poi rifiuterò ogni altra proposta. Ho voglia di partire con il piede giusto e scoprire quello che vorrò fare con i quindici, vent’anni al massimo – se ho fortuna, con il mio vizio di fumatore – che mi restano ancora per lavorare. Quindi quando mi chiede che cosa mi riserva il futuro, le rispondo che sono ansioso di guardare al di là  del baratro, per capire se voglio semplicemente riposarmi e navigare in Rete o fare qualcos’altro. Non lo so».
Proprietà  letteraria riservata © 2011 RCS Libri S.p.A.
ISBN 978-88-17-05121-7 Prima edizione: agosto 2011
Titolo originale: 12 Septembre, l’Amerique d’après © 2011 Casterman Tutti i diritti riservati Pagine 111-125: Fonte Joe Sacco © Futuropolis, tutti i diritti riservati.


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