Il menù che salva l’ambiente

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Dalla lista per il supermercato cancellate, nell’ordine: costolette d’agnello, bistecca e hamburger, mozzarella e parmigiano, prosciutto e salmone (almeno quello che i portafogli normali si possono permettere: d’allevamento). Scrivete, invece: tacchino, pollo, tonno, uova. Questo, almeno, se avete a cuore il problema dell’effetto serra e le sorti del pianeta. L’elenco, infatti, non ha nulla a che vedere con le meraviglie della dieta mediterranea (che sono, comunque, un beneficio collaterale) ed è stilato in base alle emissioni di anidride carbonica dei relativi allevamenti. È la “Guida del carnivoro al cambiamento climatico”, preparata dall’Environmental Working Group, un’organizzazione ambientalista americana, sommando le emissioni nell’intera fase produttiva della carne: dal mangime al trasporto al supermercato. Pecore, bovini (nella doppia veste di fettine e derivati del latte), maiali e salmoni hanno un impatto climatico superiore a quello dei polli. Nutrirli, allevarli, macellarli e venderli richiede pesticidi, fertilizzanti chimici, combustibile, mangimi e acqua.
Per agnelli, manzi e vacche, tutti ruminanti, bisogna anche aggiungere il metano che producono sia la loro digestione che il letame. Il metano è un gas serra più potente dell’anidride carbonica. Si disperde nel giro di 12 anni, mentre la CO2 continua ad agire per un paio di secoli. Fino a che resta nell’atmosfera, però, riscalda il pianeta fino a 25 volte di più dell’anidride carbonica.
L’Ewg ha in mente, soprattutto, i consumatori americani, i maggiori divoratori di bistecche e hamburger del pianeta: mangiano quasi il doppio di carne degli europei. Ma il problema è ormai mondiale: fra il 1971 e il 2010, la popolazione globale è aumentata dell’81 per cento, ma il consumo di carne è triplicato, grazie alla dieta più ricca che reclamano le classi medie in espansione dei paesi emergenti, cinesi in testa. A questo ritmo, il consumo di carne raddoppierebbe ancora, entro il 2050, aumentando la pressione dell’effetto serra. Tutti vegetariani, allora? E vegetariani integralisti, per di più, capaci di rinunciare anche allo stracchino e allo yogurt? L’Ewg non si fa illusioni. Del resto, la “Guida” è destinata a chi vuole continuare a mangiare carne. L’appello, dunque, è ad una sorta di reintroduzione del “venerdì di magro”. Un giorno alla settimana senza fettina. I benefici, in termini di emissioni di gas serra, assicura la Guida, sarebbero immediati.
Mangiare un hamburger in meno a settimana, per un anno, infatti, calcolato in CO2, corrisponde a 500 chilometri in meno della vostra auto. O, anche, ad asciugare la biancheria al sole, almeno una volta su due, invece che nell’asciugatrice. Ma, se dalla carne macinata saliamo a tagli più pregiati, i benefici si moltiplicano. Per una famiglia di quattro persone, rinunciare a carne e formaggio una volta a settimana, per un anno, equivale ad azzerare le emissioni della loro auto per cinque settimane. Se la carne a cui rinunciano è la bistecca, le emissioni risparmiate sono quelle di tre mesi in macchina. Se, poi, fosse l’intera popolazione americana a fare a meno di carne e formaggio per un giorno a settimana, il risparmio equivarrebbe alla CO2 emessa guidando per 150 miliardi di chilometri. Come togliere dalla strada, per un anno, 7,6 milioni di automobili.
Lo studio dell’Environmental Working Group si basa esclusivamente sul confronto fra quantità  di carne ed emissioni di gas serra e questo spiega alcune sorprese nei risultati. L’abbacchio capeggia la lista, nonostante non sia una carne particolarmente diffusa, perché la quantità  di carne che si ricava da un agnello è poca rispetto all’animale, relativamente a quanto avviene con un vitello. Un discorso analogo vale per il salmone di cui, soprattutto se affumicato e confezionato, si utilizza solo il filetto. D’altro canto, l’invito a mangiare, invece, tonno, fa a pugni con l’allarme degli ambientalisti per il pericolo di estinzione di un pesce sovrapescato: forse lo si può sostituire con gli sgombri.
Ma, per rasserenare i complessi di colpa degli ambientalisti amanti delle bistecche, l’avvertenza più importante è che i calcoli dell’Ewg fanno riferimento agli Stati Uniti e ai metodi di allevamento americani e, in generale, di buona parte dell’Occidente. Cioè agli allevamenti intensivi e industriali, quelli con gli animali confinati nelle stalle e allevati a ritmi accelerati, grazie ad un mangime fatto non d’erba, ma di cereali. Nella catena produttiva, è nelle coltivazioni di queste granaglie (soia e granturco, in particolare) che incidono, in termini di emissioni, pesticidi, fertilizzanti, gasolio per i trattori e il trasporto. È una quantità  enorme di cereali: oltre 600 milioni di tonnellate vengono destinati, ogni anno, all’alimentazione dei bovini nelle stalle. Il fenomeno riguarda, quasi esclusivamente, i paesi industrializzati. Due terzi di quei 600 milioni di tonnellate di mangime vanno, infatti, nelle stalle dei paesi ricchi. L’America, soprattutto, che ne consuma un quarto, 150 milioni di tonnellate di soia e granturco per il suo bestiame. Con gli allevamenti industriali si ottiene più carne, ma, in termini generali, l’uso dei cereali come mangime è inefficiente: con quei 600 milioni di tonnellate di cereali, perfettamente idonei all’uso umano, si potrebbero sfamare un miliardo e mezzo di persone.
Metà  dei bovini del mondo, peraltro, vive fuori dalle stalle: l’allevamento all’aperto, a base di erba, su appezzamenti, normalmente, poco adatti alla coltivazione, taglia tutta la fase delle emissioni di gas serra, legata alla produzione dei cereali. In più, al contrario dei mangimi a base di soia o granturco, invece di sottrarre cibo all’uomo, ne aggiunge: il bovino allevato all’aperto trasforma in proteine mangiabili l’erba, che noi non possiamo mangiare. I vantaggi non si fermano qui e riguardano direttamente le emissioni di CO2. Un recente rapporto dell’Union of Concerned Scientists sottolinea che i pascoli sottraggono anidride carbonica dall’atmosfera e la immagazzinano nel suolo, al ritmo di una tonnellata di anidride carbonica per ettaro. Il pascolo risulta tanto più efficace, sotto questo profilo, quanto più è ricco di piante leguminose, che migliorano la qualità  dei foraggi e diminuiscono le emissioni di metano. Secondo il rapporto, una corretta gestione dei pascoli le può ridurre fino al 30 per cento. È l’alternativa suggerita dall’Environmental Working Group ai carnivori impenitenti. Bistecche e formaggi ottenuti in questo modo costano – è vero – di più. Probabilmente, quello che il vostro portafoglio ha risparmiato con il venerdì di magro.


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