IL RISCHIO DI UNA FINE CATASTROFICA

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Che questa sia l’obiettivo dei “bengasini” è indubbio; che si tratti di un’avanzata senza ostacoli è altro conto. Come dimostrano gli ultimi rivolgimenti sul fronte di Brega, città  spesso simbolo dell’anabasi degli insorti. Il tempo di Gheddafi sembra, comunque, contato. Più che la situazione militare sul terreno, sono le continue defezioni. Le più fresche: quelle del ministro per le risorse energetiche, Omran Abu Kraa, presidente della Noc, la compagnia petrolifera statale di Tripoli. E quella di Abdel Jalloud, a lungo numero due del regime. Caduto in disgrazia, dal 1990 Jalloud non aveva più ricoperto alcun incarico ufficiale. Era definitivamente fuori dal gioco dopo che Gheddafi lo aveva accusato di essere silente complice del tentato colpo di Stato del 1993, orchestrato da giovani ufficiali dell’esercito membri della potente tribù dei Warfalla. Tribù di grande peso numerico e prestigio, che si considerava protettrice di quella dei Ghaddafa, alla quale appartiene il Colonnello e che forniva il maggior numero di effettivi all’esercito. In quel tentativo, originato dall’annoso e mai risolto problema libico, ovvero la redistribuzione del potere e delle risorse nel sistema tribale, i Warfalla avrebbero avuto l’appoggio dei Magariha, la tribù di Jalloud. Ora Jalloud è fuggito in Tunisia e poi, da lì a Roma, per poi dirigersi forse in Qatar. Una fuga che il regime liquida con sufficienza, puntualizzando che Jalloud avrebbe “abbandonato la politica volontariamente”. Il regime precisa che l’ex-premier ha trascorso buona parte del suo tempo all’estero per curarsi. Liquidandone sprezzantemente il ruolo nella storia della Jamahirya.
Ma che farà  Gheddafi di fronte alla prospettiva della battaglia finale? Nonostante il mandato d’arresto della Corte penale internazionale molti, tra gli stessi insorti e nei Paesi occidentali che con la Libia hanno avuto stretti rapporti negli ultimi anni, preferirebbero che il Colonnello andasse in esilio. Meglio in Venezuela che in Tunisia, in un Paese africano piuttosto che in un altro Paese arabo. In cambio del prezzo del silenzio. Così gli stessi membri del Consiglio nazionale transitorio, fanno sapere che, di fronte a un volontario e pubblico abbandono del potere, potrebbero anche considerare una simile ipotesi.
Ma nel cupio dissolvi che sembra sottrarlo anche alle pressioni del resto della famiglia, il Colonnello potrebbe essere intenzionato a fare di Tripoli la sua Berlino 1945. Una scelta che rende plausibile quella fine che il presidente del Cnt Mustafa Abdel Jalil prevede “catastrofica” per lui e i suoi. Come se, scegliendo l’epilogo tragico, il Colonnello volesse ancora una volta ricordare al mondo che, senza di lui, la Libia non sarà  più tale. Una battaglia quella per Tripoli che, semmai ci fosse, rischia di ipotecare a lungo il futuro del Paese. Per le profonde ferite che rischia di provocare in un contesto frammentato da fratture etniche e tribali. Evitare che le ultime, drammatiche, volontà  di Gheddafi si compiano, diventerebbe a quel punto un imperativo politico oltre che umano.


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