Il suicidio di Nerone, la buca di Saddam

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Fu al calar del sole che Acab re d’Israele, che aveva pur fondato tante città  e costruito un palazzo d’avorio, morì per un colpo di freccia mentre combatteva sul suo carro da guerra. Una bella morte, in fondo: ma il grande e terribile profeta Elia gliel’aveva predetta, come si legge nella Bibbia, nel I libro dei Re. Correva l’anno 852 a. C.; e il glorioso re Acab aveva meritato che il Signore lo abbandonasse, poiché aveva restaurato in Israele e in Samaria il culto degli idoli e aveva commesso ogni sorta di prevaricazioni.

Eppure, non pare fosse quella la sua natura. Ma era stato travolto dalla passione per una bella e malvagia dame sans merci, la sua sposa Gezabele: avida, corrotta, idolatra, assassina di profeti. Per lei aveva malgovernato, rubato e ucciso.
Acab è rimasto nei secoli l’archetipo del rex iniustus, che sovente è buono e giusto agli inizi ma che finisce con l’abusare del suo potere e della fortuna, magari dello stesso favore divino. Non è solo malvagio: la sua malvagità  è frutto della corruzione di qualcosa di originariamente buono, corruptio optimi pessima. La Bibbia ce ne fornisce altri esempi, da Nabucodonosor e da Baldassarre sovrani di Babilonia all’orgoglioso faraone avverso a Mosè fino allo stesso Saul roso dalla vanagloria e dall’invidia; e a Erode, odiatore del Messia e infanticida, che muore divorato dai vermi nati dal suo stesso corpo infermo.
Per qualificare il sovrano o il capo di Stato ingiusto e prevaricatore, la cultura occidentale ha sottoposto a una vorticosa avventura semantica un termine greco, tyrannos, che nella lingua degli elleni non ha affatto un valore di per sé moralmente peggiorativo, ma che suona esclusivamente come una denunzia giuridica. È tyrannos chi s’impadronisce del potere e lo esercita senza possederne i necessari requisiti ereditari o istituzionali; poi, può essere in realtà  anche il migliore e più giusto. Ma il governo in Atene dei cosiddetti «trenta tiranni», fra il 404 e il 403 a. C., impresse al termine il valore negativo, legato al malgoverno e all’ingiustizia, che ancor oggi esso conserva. Furono soprattutto alcuni personaggi della Magna Grecia, come Gelone e Dionisio di Siracusa, a divenir modelli di tirannia; ma i greci, seguiti in ciò dai romani, preferivano indicare come esempi ovvi e inevitabili di tirannide i re o i capi barbari (dai re persiani a Pirro d’Epiro ad Annibale). Attenzione, però: se la tirannide era condizione «naturale» dei barbari, in quanto inferiori e corrotti, essa era eccezione orribile e vergognosa in Atene o in Roma, patrie di libertà  e di giustizia garantite dagli dei. Difatti, in ultima analisi, la vera natura del tiranno non è neppure la crudeltà , neppure la violenza: bensì l’hybris, l’empietà . Ciò soprattutto condanna lo spartano Pausania o il tebano Creonte al pari dei romani Tullio Ostilio o Tarquinio il Superbo; ciò condanna gli imperatori come Caligola, Nerone o Domiziano che, secondo l’aristocrazia senatoriale custode delle tradizioni, hanno prevaricato nell’abuso e nell’arbitrio.
La cultura cristiana ha ereditato pienamente il concetto del tiranno come rex iniustus, in un primo tempo fissandolo — come ha fatto Lattanzio fra III e IV secolo — nell’immagine del persecutore che, in quanto tale, è condannato a una morte atroce ed esemplare. Dagli agiografi medievali agli umanisti — si pensi al ritratto atroce di un Ezzelino III da Romano o alla violenza ridicola e plebea che si attribuisce a un Cola di Rienzo — ai gesuiti fautori del diritto dei popoli al tirannicidio sino ai tardi epigoni dell’Illuminismo settecentesco che hanno recalcitrato dinanzi all’idea che Robespierre potesse essere un tiranno, ma tale hanno qualificato il «despota superstizioso» Luigi XVI o il «nuovo Cromwell» Napoleone.
Assistiamo in queste ore al ripresentarsi sulla scena del mondo di un antico dramma, legittimato da un topos storico-letterario a modo suo venerabile e sempre fedele a se stesso pur nelle sue molte varianti. Il capo che ha sedotto e poi tradito il suo popolo, che è stato osannato e idolatrato ma che ha abusato dell’amore e della fiducia di cui era oggetto, riceve, sulla terra e nella storia, il triste salario simbolo della sua condanna. Ordinariamente, non basta che la fine del tiranno sia terribile e che attraverso le sue sofferenze e la sua morte giustizia sia fatta per le sofferenze ch’egli ha inflitto. Non è sufficiente che le sue effigi siano profanate, che le sue statue siano distrutte, che i suoi sostenitori siano uccisi o imprigionati a meno che non si pentano e che non lo rinneghino.
No. Deve esserci di più. Ce lo insegnano i nostri grandi maestri di creazioni archetipiche: la Bibbia, Euripide, Plutarco, Tacito, Shakespeare, Schiller. Prendete Nerone, che si uccide per paura di essere ucciso e muore tremando eppur continuando a recitare la tragedia del suo potere. Prendete Riccardo III che — se Caligola aveva fatto senatore il suo cavallo — finisce cercando di barattare il suo regno con un equino. Nella tragedia della tirannide e della sua conclusione, il vero contrappasso che il topos storico-letterario richiede è l’ombra del grottesco: la sola in grado di sfrondare gli allori dell’idolo infranto e di dimostrare che la sua non era vera gloria. Nella società  cristiana, il grottesco era il segno del demoniaco; nella società  laica, è il segno della delegittimazione e della degradazione di chi, alla fine di una parabola politica, viene indicato come tiranno. È quindi necessario che Saddam Hussein e Gheddafi terminino la parabola del loro potere nascosti in una buca sottoterra, com’era necessario che Mussolini morisse tentando di scappare travestito e che Hitler, temendo di venir catturato vivo e di diventare lo zimbello dei vincitori, si suicidasse dando però l’ordine che l’ultima trasmissione radiofonica del Reich lo presentasse — mentendo — come caduto nibelungicamente in combattimento alla testa degli ultimi tenaci eroi della Berlino in fiamme. Quel che il tiranno supremamente teme, che i suoi avversari supremamente vogliono, è che crolli il monumento del Superuomo e che, dalle rovine, sgattaioli fuori il «Borghese piccolo piccolo» che lo abitava, privo ormai del potere e del carisma della propaganda, nudo nella miseria della sconfitta.
La fine di un tiranno non può mai esser grande: non si può permettere che lo sia, «per la contraddizion che nol consente». Bisogna che alla fine tremi di paura, o scodinzoli dietro alle gonne della sua ultima amante, o cerchi di sistemare al sicuro il malloppo che ha messo insieme. Una vita politicamente grande, quando non è coronata dal successo e quando il consenso non le sopravvive, richiede una fine piccola e meschina. Sono le regole del gioco. Se e quando la realtà  storica minaccia di parlare un linguaggio diverso, la manipolazione propagandistica s’incarica di metter le cose a posto.
Ecco perché in fondo, tra i tiranni archetipici del nostro tempo, la sola vera «scandalosa» eccezione è Stalin, morto da vincitore e al culmine della gloria e del consenso mondiale; e la cui stessa damnatio memoriae è arrivata tardiva e ambigua. Ma per descrivere davvero il tragico paradosso storico di Josip Vissarionovich, sarebbero necessari lo stilo di Plutarco o la penna di Shakespeare. Per troppi suoi squallidi o ridicoli succedanei, sarebbe stata o sarebbe già  troppo quella di Pitigrilli.


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