Il tunnel mentale

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Il fautore dei terribili attacchi del 22 luglio 2011 in Norvegia ha accompagnato le proprie azioni disumane con materiali propagandistici in cui si mescolano la condanna ai fenomeni da lui maggiormente odiati (Islam, marxismo, immigrazione, multiculturalismo) e l’esaltazione di crociati e cavalieri medievali. La reazione composta, ma toccante, del popolo norvegese e dei suoi più importanti esponenti politici, ha costituito una risposta incisiva alle tremende azioni di Anders Behring Breivik. Appare comunque inevitabile che la tragedia avvenuta provocherà  ulteriori dibattiti, sia in Norvegia che in tutta Europa, riguardo a questioni quali multiculturalismo, immigrazione, radicalismo e sicurezza.

L’occasione per tali dibattiti di dimostrarsi utili ed illuminanti dipenderà  in gran parte dalla ragionevolezza con cui verranno condotti. Si dovrebbe prima di tutto fissare un punto di partenza comune e cercare di evitare facili capri espiatori. Ma sarà  necessario anche qualcosa in più, cioè una maggiore consapevolezza dei comportamenti e degli atteggiamenti che possono spingere persone come Breivik a pensare ed agire in maniera violenta. Essi includono l’autoisolamento in rete (compreso l’isolamento reciprocamente supportato) e la tendenza ad etichettare gli altri a seconda della categoria a cui si ritiene appartengano, oltre che una suddivisione netta tra coloro che si considerano simili a sé per la loro mentalità  (i buoni) e coloro che la pensano diversamente (i nemici).

Il fenomeno in atto

Prima di inoltrarsi in problematiche così profondamente radicate, ci sarebbe parecchio da fare per chiarire i termini del dibattito riguardo a temi quali il multiculturalismo. La sua definizione rimane tuttora nebulosa e variamente contestata. Vi sono diversi modelli e studi filosofici che lo legano a questioni di ordine pubblico, che lo indicano come fenomeno sociale o, ancora, che lo inseriscono tra le dottrine politiche. Al fine di porre le basi del dibattito nella maniera migliore, sarà  necessario prendere in considerazione realtà  che continueranno ad esistere qualsiasi siano le valutazioni concepite in astratto riguardo al soggetto.

È incluso il fatto che i cittadini europei, volenti o nolenti, stiano vivendo in una società  che si sta diversificando sempre più in termini, ad esempio, di cultura, linguaggio, religione ed orientamento sessuale. Si tratta di una trasformazione sociale che sta seguendo da sempre il proprio corso, in un processo che sarà  difficilmente reversibile.

Essa è parte della storia stessa ed ha portato l’umanità  a raggiungere grandi risultati. Cultura e civiltà  hanno infatti potuto svilupparsi proprio perché diversi popoli hanno avuto occasione di incontrarsi, scontrarsi ed interagire. Ognuno è il prodotto di un melting-pot: cultura e identità  sono per definizione fluide e non possono dunque essere pure o statiche. Inoltre, le società  si trasformano e mutano nel tempo proprio come ogni individuo fa nel corso della propria esistenza. Di fronte a tali cambiamenti sociali, si ha la tendenza ad una visione retrospettiva del passato, che porta a riscriverlo mitizzandolo come una perduta età  dell’oro.

Sono necessari veri e propri interventi che aiutino le persone ad affrontare tali cambiamenti sociali e a rapportarsi sempre più spesso con chi è diverso da loro, che promuovano il rispetto di tutti gli esseri umani ed incoraggino il sentimento del bene comune. Se, da una parte, sarebbero in pochi ad osteggiare un simile approccio, che potrebbe essere considerato come una forma allargata di multiculturalismo, molti potrebbero opporsi ad una sua declinazione più stretta, che incoraggerebbe ancora di più frammentazioni interne alle comunità  ed una mentalità  incentrata sulla formazione di enclavi. Ma, ove tali problemi dovessero sorgere, si potrebbe pensare, in linea di principio, di affrontarli e correggerli, proprio come avviene in altri ambiti, come quello della finanza o della tecnologia.

Inoltre, a questo livello il dibattito sul multiculturalismo non tocca correnti più profonde, emozionali o psicologiche, che si muovono al di sotto della superficie. Ciò vale anche per le altre questioni sollevate dalla catastrofe norvegese, come la sicurezza e l’inasprirsi del radicalismo. Sembra che nessuna discussione riguardo i benefici o i costi del multiculturalismo – e la maggior parte dei dibattiti avvenuti in Europa negli ultimi anni hanno preso in considerazione soprattutto questi ultimi – tocchino coloro che nutrono sentimenti negativi ad esempio nei confronti degli immigrati o dell’Islam. In realtà  vi sono preoccupazioni più ampie, che alla radice non hanno a che fare con un nemico identificato, e finché non si riuscirà  ad evitare di esacerbarle, dibattiti simili a quelli che seguiranno l’accaduto in Norvegia non riusciranno a proseguire fino al punto che sarebbe loro necessario.

Le forze interne

Cosa si dovrebbe dunque fare per poter proseguire? Il caso dell’attentatore norvegese suggerisce come tre problematiche in particolare richiedano una maggiore attenzione.

La prima coinvolge internet (che presenta certamente anche aspetti positivi) e riguarda la tendenza di coloro che si ritrovano in rete poiché uniti da una causa comune, a sviluppare, in maniera forse ancora più estrema, un’intesa identitaria e legami esclusivi. La facilità  di reperire propaganda in rete, unita al fatto che essa attiri particolarmente coloro che sono alla ricerca di conferme riguardo alle proprie già  esistenti visioni personali, può entrare a far parte di tutto ciò che contribuisce a rinforzare una spirale dove ogni certezza parziale fa eco ad un’altra, senza essere bilanciata da una visione contraria o che permetta un confronto di idee. Ciò sembra proprio essere tra i fenomeni in atto che hanno condotto alla tragedia norvegese.

La seconda è legata all’utilizzo di una catalogazione per definire, delimitare ed etichettare differenti sezioni della popolazione. Ancora una volta, il manifesto scritto da Breivik e le sue orribili azioni sono un esempio terrificante di dove tale modo di pensare, portato agli estremi, possa condurre. Ciò è evidente, ad esempio, anche nelle politiche d’intervento europee legate al contro-terrorismo, dove si tendono a delineare in modo omogeneo le caratteristiche degli individui o delle comunità  sospettate, attribuendo loro una certa etnia, fede o appartenenza culturale, senza tener conto delle grandi diversificazioni che possono essere presenti all’interno di un gruppo o dei cambiamenti a cui ogni singolo individuo può andare incontro.

Ciò ha portato in molte occasioni a veder infrangere dei diritti, oppure a sottovalutare potenziali pericoli provenienti da persone che non sono state etichettate sotto la categoria più appropriata. Non si può fare a meno di notare, ad esempio, come ricercatori ed attivisti in Inghilterra abbiano per molto tempo espresso le proprie preoccupazioni riguardo all’estremismo di destra, sebbene tale tema sia stato esplicitamente sottovalutato nel nuovo documento sulle strategie di contro-terrorismo – denominato “Contest” – presentato dal Governo non molto tempo prima dei fatti avvenuti in Norvegia.

La terza problematica è data dalla presenza di una mentalità  che suddivide il mondo in due parti, ove la purezza e la bontà  di una di esse le danno il diritto di attaccare ed annientare l’altra. Gli sfoghi di Breivik sono pervasi da tale modo di pensare ed in ciò richiamano la mentalità  di Al Qaeda o di gruppi simili che si collocano dichiaratamente dalla parte opposta dello schieramento.

Ciò suggerisce che a destare preoccupazione non dovrebbero essere tanto le singole forme di estremismo (islamico o di destra, in Europa), bensì il fenomeno collettivo della presenza di forme di pensiero riduttive, dogmatiche ed omogeneizzanti, costruite attorno a rigide definizioni di identità  e di ostilità  e impermeabili al dialogo con chiunque si trovi al di fuori del circolo privato che le genera.

Le tre problematiche appena presentate operano ad un livello che potrebbe renderle meno soggette a chiare risposte normative rispetto a quelle che i più famigliari temi del multiculturalismo, radicalismo ed estremismo tendono a produrre. Nella misura in cui però esse si sono rivelate fattori basilari per quanto riguarda gli atroci attacchi in Norvegia, il dibattito attorno a tali eventi dovrebbe prenderle in considerazione. Una comprensione globale e più profonda di come questi comportamenti ed atteggiamenti mentali influenzino i crimini di persone come Anders Behring Breivik potrebbe aiutare ad assicurare che simili crimini non vengano mai più ripetuti.

tradotto da Marta Albé

Per gentile concessione di Open Democracy

* Specialista di islam in Europa e docente di politica internazionale alla City University di Londra e alla universita di Cambridge


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