La democrazia col kalashnikov così gli insorti di Tripoli vogliono riprendersi la città 

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TRIPOLI. Tutto è difficile. Nel mio albergo c’è una sola chiave per duecento camere. Fortunato chi l’acciuffa in tempo per andare a letto. Le altre si sono perse durante la guerra civile che ha coinvolto la portineria. Niente funziona. Meglio non pensare agli ascensori anche se alloggi al ventesimo piano e oltre. Grazie agli introiti del petrolio e del gas negli ultimi tempi l’immobiliare si è purtroppo sviluppato in altezza.
Come a New York e a Shanghai. L’acqua scarseggia. Quella minerale costa come la benzina. Ossia trenta, quaranta volte quel che costava normalmente. Oppure manca del tutto. La luce singhiozza. E con lei tutte le apparecchiature elettroniche che ti porti dietro. Sono inconvenienti aggravati dal caldo. Poi ci sono quei ragazzi all’angolo delle strade con kalashnikov e qualche mitragliera montata su un pick-up giapponese, che possono preoccupare. Ci sono armi dappertutto e penso che in larga parte siano quelle distribuite da Gheddafi alla popolazione affinché difendesse Tripoli, e che adesso sono usate contro di lui da vecchi o nuovi nemici. Ho trovato dei kalashnikov persino sotto il materasso. Allungando i piedi, sentivo in fondo al letto qualcosa di strano. In piena notte la porta della mia camera è stata forzata e hanno fatto irruzione due shebab, in tuta mimetica. Hanno alzato il materasso sotto il quale c’erano non uno ma due kalashnikov. Erano venuti a recuperarli nella loro vecchia stanza. E’ stato un trauma notturno.
Tutto è piuttosto difficile, eppure in questa città  sudicia, imprevedibile, infida, non governata, ed anche innervosita dal digiuno diurno del Ramadan, senti una sferzata di ottimismo. Ti rivitalizzano i sorrisi. Sorridevano anche i due marcantoni che sono entrati con la forza nella mia camera in piena notte. Ma l’adrenalina viene soprattutto dal fatto che assisti alla nascita di una democrazia. Una democrazia forse destinata a un aborto; le premesse non mancano; ti lasciano col fiato sospeso; e tuttavia per il momento c’è nell’aria, nelle espressioni, nelle parole, un sentimento raro, obsoleto, che credevi relegato nelle preghiere in chiesa, dove si parla dell’al di là . Penso alla speranza. La quale in queste ore a Tripoli è sbrindellata, chiassosa, insolente, e non esclude esplosioni di vendetta, può avere anche il colore del sangue. Ma segna la partenza per un avvenire comunque diverso da quello consumato nei quarant’anni dominati dalle violente, umilianti stravaganze del colonnello Gheddafi. Adesso dei ritratti del raìs i tripolini hanno fatto tappeti in cui pulirsi le scarpe prima di entrare in casa. Con una punta di spavalderia, io, almeno in queste ore, poi si vedrà , farei altrettanto con le obiezioni dei profeti di sventura che già  decretano un fallimento del dopo Gheddafi, terzo grottesco tiranno, dopo Ben Ali e Mubarak, inghiottito dalla primavera araba.
Il caos di Tripoli ha un suo ordine. Basta capirlo. Il governatore, investito dal Consiglio Nazionale di Transizione, ha preso contatto con i vari quartieri. Un’impresa ardua poiché la metropoli in tempi normali contava una popolazione di quasi due milioni di abitanti (sui sei e mezzo dell’intero paese), frantumata in tante tribù inurbate con variabili rapporti con un potere che appariva perenne. Via via che la resistenza delle forze governative si affievoliva, fino a spegnersi (in apparenza) del tutto come adesso, ad ogni quartiere è stato assegnato il compito di disciplinare, nei limiti del possibile, i gruppi di giovani armati e di affidare loro il compito di garantire la sicurezza, e sempre nei limiti del possibile, di mantenere l’ordine.
Così si è realizzata paradossalmente, non si sa per quanti giorni, quella che Gheddafi chiamava Jamahirya, e che doveva essere lo Stato delle masse. Era una finzione, poiché lo Stato era soprattutto sotto il suo personale controllo e della famiglia. Ma con i suoi toni da visionario lui parlava di “democrazia diretta” nella quale la popolazione si autogovernava, detenendo il potere, la ricchezza e le armi. Almeno in parte è quel che sta avvenendo, poiché il potere nelle strade e le armi (la ricchezza, ossia il petrolio, è un altro capitolo) in queste ore di transizione sono sotto il controllo della gente dei quartieri. Per lo più ragazzi sui vent’anni, che fanno chiasso, a volte sciupano le munizioni sparando per aria, ma che in effetti mantengono l’ordine. Un ordine provvisorio, che può anche apparire caotico, ma che è rassicurante. Salvo qualche imprevedibile cecchino, da alcune ore giri la città  senza apprensione. Questo grazie agli shebab, guerriglieri imberbi e improvvisati.
Senza di loro ci sarebbe il vuoto, perché in quarantadue anni di potere il colonnello Gheddafi ha lasciato il paese senza istituzioni: niente parlamento, niente partiti, niente società  civile. La scolarizzazione è stata mediocre e i funzionari sono corrotti. Il funzionamento del paese, straricco grazie al petrolio, è stato assicurato dagli immigrati, egiziani, tunisini, algerini, africani subsahariani, che rifacevano i letti negli alberghi e contribuivano alla conduzione delle aziende nei grattacieli. Quasi tutti gli stranieri se ne sono andati. Infatti nessuno fa più i letti negli alberghi e le aziende devono ancora riaprire. I membri del Consiglio Nazionale di Transizione, che in queste ore si spostano a gruppi da Bengasi a Tripoli, trovano il vuoto. Sono quaranta personaggi dei quali, per motivi di sicurezza, fino a qualche ora fa non si conoscevano neppure i nomi (salvo per tredici di loro). Tra poco saranno ottanta saggi incaricati di indire anzitutto un’elezione per l’assemblea costituente. Nell’attesa, non essendoci né esercito né polizia, gli shebab dei quartieri avranno un compito essenziale.
Non è stato tutto un sorriso. La sete di vendetta è costata tanto sangue. Ed è l’aspetto più inquietante. Diana Eltahwi, di Amnesty International, denuncia torture, esecuzioni sommarie o giudizi sbrigativi. I massacri compiuti dagli uomini di Gheddafi in fuga, in particolare dalla Brigata comandata dal figlio Khamis (del quale si dice sia stato nel frattempo ucciso), sono stati ampiamente descritti. Il giovane Khamis ha ucciso o fatto uccidere di preferenza con colpi alla nuca. Prima di ritirarsi, probabilmente in direzione di Sirte, dove si è concentrato quello che sembra essere l’ultimo centro di resistenza del regime, la Brigata Khamis ha eliminato gran parte dei prigionieri. Un giudice, Abdul Hadi Abu Shahyna, liberato ai primi di luglio, ha raccontato che tra i cadaveri lasciatisi alle spalle dai gheddafisti ci sono quelli di suoi compagni di prigionia, tutti oppositori politici del regime, ingegneri, avvocati, ed anche artigiani e operai.
Ma anche gli insorti si sono accaniti sugli avversari fatti prigionieri. Nelle vicinanze di un loro ospedale da campo uomini stesi sulle barelle e con gli aghi delle fleboclisi nelle vene hanno agonizzato per due giorni. I ribelli si sono accaniti soprattutto sui supposti mercenari neri Non pochi cadaveri sono stati trovati con le mani legate. I corpi erano stesi sui prati tra Bab al Aziziya, la roccaforte di Gheddafi, e il quartiere di Abu Salim. Le esecuzioni sarebbero avvenute durante e dopo la battaglia per la conquista di Bab al Aziziya. Fatti del genere si sono verificati anche nella città  di Zawiya, a cinquanta chilometri da Tripoli, sulla strada per la Tunisia. E in seguito a quanto è accaduto in quella località , il Foreign Office ha espresso preoccupazione, precisando che la giustizia dovrà  perseguire tutti gli abusi commessi, senza distinzione tra vinti e vincitori. Ha contribuito ad accentuare il forte malessere, per il comportamento degli insorti, la voce secondo la quale nella prigione di Abu Salim, da dove sono appena stati liberati quattromila detenuti politici, saranno rinchiusi i gheddafisti colpevoli di crimini. Abu Salim è un nome importante nella storia della rivolta di febbraio che in sei mesi ha condotto alla fine di Gheddafi. Nel ‘96 in quel carcere furono assassinate milleduecento persone, e l’avvocato che chiese la restituzione dei corpi alle famiglie fu arrestato. E’ per ottenere il suo rilascio che a Bengasi sono cominciate le manifestazioni.
Il nuovo potere rischia la sua reputazione e ne è cosciente, poiché i richiami all’ordine del Consiglio nazionale di transizione sono stati numerosi e fermi. Se ai suoi primi passi i nuovi dirigenti accettassero il dilagare delle vendette la loro rispettabilità  sarebbe seriamente compromessa. Ma quando la sera, alla fine del digiuno, condivido la cena con gli shebab, che tengono il kalashnikov tra le gambe, mi accorgo che i loro sorrisi nascondono intenzioni bellicose. E quando dico che la democrazia non è un regolamento di conti, molti mi guardano perplessi. Forse non ci capiamo.


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