La polizia del mondo

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Augurarselo era affare di irresponsabili o di nemici così superstiziosi dell’arroganza occidentale da simpatizzare per la tirannide sanguinaria di un buffone. A fomentare la superstizione non mancavano i motivi, a cominciare dalla confidenza che tanti governi occidentali avevano accordato al buffone sanguinario. In Italia, quando era sbarcato coi pennacchi e arruolato le belle da 80 euro a lezione di Libretto Verde; a Parigi, dove aveva piantato la tenda a palazzo Marigny, e a B-H. Lévy che lo chiamò terrorista in visita di Stato, Sarkozy replicò: «Ci sono intellettuali che prendono il caffè in Boulevard Saint Germain, danno lezioni, ma non si sporcano le mani e non prendono rischi». Ne trassero conseguenze diverse, dal momento che alla feroce repressione del Raìs, Berlusconi farfugliò: «Non lo voglio disturbare», e Sarkozy decise di farla finita con lui, e di fare di Lévy il suo battistrada.
Bisognerà  ammettere che il progetto – il sogno, se preferite – di una polizia internazionale esce molto contraddittoriamente da questa prova. L’autorizzazione del Consiglio di sicurezza – a un passo dall’invasione punitiva contro la ribelle Bengasi – è stata largamente oltrepassata dall’azione degli alleati maggiori e della Nato. La protezione dei civili è diventata l’abbattimento del regime. La contraddizione è largamente inevitabile nel sistema di relazioni internazionali. Chi mira a sottrarvisi escludendo ogni intervento di forza fuori dai confini della cosiddetta sovranità  nazionale rischia di farsi complice, attivo o per omissione, di crimini immani. La controprova sta solo nel fatto compiuto.
Che cosa sarebbe accaduto della popolazione indifesa di una grande città  come Bengasi, di lì a qualche ora? Sarebbe accaduto o no quello che Gheddafi e i suoi ferocemente giuravano? Non si sarebbe parlato di Srebrenica se Srebrenica fosse stata prevenuta, né del Ruanda se si fosse impedito il meticoloso indisturbato sterminio. Il mondo aveva una dichiarazione universale dei diritti, e almeno in una sua parte (mancano perfino gli Stati Uniti) si è dotato di un Tribunale Internazionale. Non di una polizia capace di un’efficacia universale e anche solo larga. Immaginate uno Stato in cui i tribunali non contino su una polizia efficace; o uno Stato in cui i criminali vengano affrontati solo se non siano troppo potenti. Succede, direte: ma almeno bisogna concordare che non debba essere così. In Libia si è intervenuti per una serie di cause. A qualcuno il massacro iniziato e quello annunciato sarà  pesato, speriamo. Obama voleva mostrare di stare dalla parte della primavera nordafricana. Sarkozy era impopolare, e veniva da una sequela di figuracce, in Costa d’Avorio, in Tunisia – dove la sua ministro degli Esteri faceva vacanza durante la ribellione ventilando la collaborazione della gendarmeria francese con Ben Ali. Sarkozy forzò la mano: la Lega Araba, il Qatar, gli Emirati, gli tennero dietro. Arrivò a proclamare l’impegno giacobino della Francia «ovunque siano minacciate la libertà  dei popoli e la democrazia». Altri, fra i regimi musulmani della regione, oscillavano fra l’arruolamento e la paura che toccasse a loro. Caduti Tunisia ed Egitto, la Siria di Assad resisteva e resiste, al costo di migliaia di vite spente a cannonate, e la resistenza di Gheddafi era il suo puntello principale: ora lo perde. Perché, obiettano gli antinterventisti di principio, in Libia sì e in Siria no? Per il petrolio? Ma Gheddafi era per noi il più affidabile dei benzinai. In Siria sì, vorrei dire, benché ne veda la difficoltà . E allora, perché in Libia sì e in Siria sì, e nella Cina del Tibet o degli Uiguri no? Perché la forza possiede ferocemente il mondo, ed è già  molto riuscire a limarle le unghie, e strapparle il nome di diritto. La polizia internazionale costretta a usare i mezzi spropositati della guerra piuttosto che quelli proporzionati alla legge e al fine, e che deve fermarsi davanti a un criminale troppo potente, ha un solo esito, prima o poi: la guerra mondiale. E bisognerebbe tenerla in considerazione, coi tempi che corrono, l’eventualità  che torni attuale la vecchia sporca nozione di guerra mondiale. I mezzi: la prima condizione che le Nazioni Unite si affrettano a decretare al momento di intervenire è che «non ci sarà  alcuna azione di terra». Non ho competenze militari e tecniche, ma il ritornello dell’esclusione di ogni «azione di terra» è un feticcio ingiustificato, e anche odioso. La “comunità  internazionale” agisce dall’alto dei cieli – l’apoteosi dei droni, che cancella ogni fisionomia umana – e lascia per definizione la terra ai suoi abitatori, alle ciabatte e le raffiche della gente dabbasso. Oltretutto è una finzione: hanno calcato la terra di Libia istruttori e forze speciali di più paesi. Ma in questa scissione di cielo e terra c’è un falso rispetto della gente di un posto, una falsa idea di invasione, come se invadessero solo i piedi sul suolo, e non le macchine nell’aria. Fu così in Kosovo, dettaglio (!) che rese odioso un intervento giustificato. Non si può decidere una volta per tutte, ma quella scelta dall’alto è lontana da un’azione di polizia, e più ancora da un’azione che voglia essere preventiva e di interposizione. E i mezzi della guerra, con la loro smisuratezza, conducono spesso a protrarre la violenza e a moltiplicarne le vittime. Prevenzione e interposizione sono rare, benché siano il cuore di ogni governo delle cose. E questo può riguardare anche le persone singole. Sorriderete se insinuo che l’amicone italiano di Gheddafi avrebbe potuto anche andarlo a disturbare di persona, a Tripoli, a dirgli che non era bene mandare aerei e carri armati contro il suo popolo, e provare a farlo ragionare. Non era possibile nessuna di queste cose, né che il pazzo di Tripoli ragionasse, né che l’amicone italiano andasse a provarci. Se ne può trarre una conclusione, su chi sta al governo là  e qua.
I nemici di principio di ogni “ingerenza”, i beffatori dell’aggettivo “umanitario”, abusato sì, ma non al punto di bandirne l’uso, avvertono anche sull’esito cui ogni intervento è destinato a condurre: nella Libia di oggi, a un gheddafismo senza Gheddafi, o a un’avanzata islamista. È possibile, probabile. Ma c’è una possibilità  che non sia così, e ci riguarda. E intanto la ribellione è avvenuta, e che la gente che grida: “We are freedom”, non sa bene l’inglese, ma sa che cosa spera. Ho visto dei consuntivi che assegnano la liberazione della Libia per il 70 per cento alla Nato, per il 20 ai ribelli, per il 10 alla defezione della cerchia del capo. «Siamo liberi», abbiamo gridato da noi nel 1861, o nel 1945: la percentuale straniera era stata molto forte, ma furono belle giornate. .


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