La sua insofferenza tradotta in lesioni formali

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 La prima, e cocente, delusione d’amore di Marina Cvetaeva fu provocata dall’incontro con il mare. Non che il litorale ligure, dove la portarono da bambina, fosse un posto sgradevole: tutt’altro. Semplicemente, ciò che ella vide non era in alcun modo commensurabile all’intensità  del desiderio, e al turbamento segreto, che le era stato suggerito dalla parola mare letta in una lirica di Puskin. L’immagine di quella bambina in preda all’indignazione, che volge le spalle al mare reale e comincia a incidere sulla roccia i versi puskiniani, è forse l’istantanea che meglio condensa certi tratti biografici di Cvetaeva: il suo furibondo corpo a corpo con la «vita così com’è», ancora non redenta dall’amore e dalla lingua.

Nemica giurata di ogni timida mezza misura, Cvetaeva attribuiva ai poeti di ogni tempo («da Derzhavin a Majakovskij») la funzione di ventriloqui degli dèi: ventriloqui che, in virtù di un dono negativo – quello di non vedere la superficie delle cose – colgono l’Essere (bytié) dietro la vita dei giorni (byt). Mortale e senza perdono era, per lei, soltanto il peccato che si commette nei confronti della parola.
Ogni lettore russo, anche il più negligente, si accorge che la tecnica versificatoria di Cvetaeva nelle opere della maturità  (basti pensare alla raccolta Dopo la Russia, al Poema della montagna, al Poema della fine, alle tragedie) ha qualcosa di prodigioso, che spesso lascia senza il fiato. Nessuno come lei seppe avvalersi delle pause, dei sottintesi, delle lacune, ricavando tanta ricchezza semantica da una estrema economia dei mezzi. Cvetaeva sfruttò a fondo la duttilità  della lingua russa: allentando sempre di nuovo i vincoli sintattici, ha ricavato nessi logici sorprendenti. Le assonanze, gli anagrammi, i giochi di parole funzionano da strumenti di significazione di alta precisione, e le false etimologie diventano sismografi di verità  celate. Un esempio tra i tanti: nella parola separazione (razlàºka), Cvetaeva faceva sentire la presenza della corda tesa di un arco (luk). E ancora: dalla scissione di domoj (a casa!) lasciava emergere le rivendicazioni-chiave di ogni bambino: daj (dammi!) e moj (mio!).
L’insofferenza per la «vita così com’è», che attraversa da un capo all’altro la poesia di Cvetaeva, si manifesta per intero in certe lesioni formali: verbi scomparsi, sostantivi frastagliati, sensi sovrapposti. Conciso e nitido, il suo verso è però costantemente al diapason. Di questa capacità  di tenere un registro elevatissimo lungo l’intero componimento si meravigliava Anna Achmatova: «Marina spesso inizia la poesia dal do più alto». La sua metrica è un gioco tra obbedienza e disobbedienza, un alternarsi di promesse mantenute e disattese, di rallentamenti e accelerazioni.
Durante gli anni dell’esilio Cvetaeva si rifiutò di trasformare la patria perduta in un feticcio: «Per me/ è assolutamente lo stesso/ dove – assolutamente sola – /restare». E liquidò la questione linguistica con pari perentorietà : «Ed è lo stesso in che lingua/non farmi capire». Diceva che la Russia era dentro di lei e nei canti. Credeva che la condizione di sradicamento, di precarietà  e emarginazione facesse tutt’uno con l’essere poeta o, più radicalmente, col non-essere dei «rinnegati»: «Giacché ai non serpenti la vita/ è pogrom».
Cantò una femminilità  virile, impavida, stoica, capace di far fronte alle rinunce, di tener botta ai colpi del destino. Non a caso, provò ammirazione per le Amazzoni e tenerezza per la loro tragica regina, Antiope. In alcuni casi, trattò la trama degli antichi miti come una questione impellente o una sfida personale: con un piglio imperioso, tipicamente cvetaeviano, accusò Euridice di non aver saputo trattenere Orfeo dal fatale errore di voltarsi indietro («Io sarei riuscita a convincere Orfeo: non voltarti!» – scrisse a Pasternak); difese la passione infelice di Fedra per il figliastro, e perfino quella di Gertrude, madre di Amleto, per l’assassino del marito.
Indubbia è la sua familiarità  con la dismisura. Aggiunse al coro di voci femminili l’«ennesima dichiarazione d’amore» per Casanova: nella Phoenix volle rendere omaggio all’ormai anzianissimo avventuriero, solo e in fuga dalle umiliazioni, facendolo oggetto di un ultimo amore da parte di una tenera donna-bambina. Un tratto non irrilevante accomuna il Casanova di Cvetaeva al Don Giovanni di Puskin: oltre a essere eterni sovvertitori dell’ordine – o forse proprio per questo – entrambi sono poeti.
Non meno importante è il fatto che Cvetaeva compose paradossali «elogi» delle cose che più detestava: Elogio dei ricchi («Perché non entreranno in paradiso») e Elogio del tempo («Giacché io sono nata fuori/tempo»). La fuori-tempo sapeva che l’epoca in cui la sua opera sarebbe divenuta pienamente leggibile doveva ancora venire: era inevitabile che l’establishment parigino dei letterati russi emigrati trovasse troppo «isterico» il timbro tragico e passionale della sua voce.
Il tempo non ha tradito Cvetaeva. Oggi è difficile non considerarla (insieme a Osip Mandel’stam) la voce poetica più potente del ‘900 russo.


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