La tigre dell’inflazione che preoccupa

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L’inflazione al 6,5% registrata a luglio (rispetto allo stesso periodo dello scorso anno) e resa nota ieri dall’Ufficio centrale di statistica di Pechino rappresenta un segnale preoccupante per le autorità  politiche.
Il Partito comunista cinese (Pcc) teme che l’impennata del costo della vita alimenti proteste popolari come quelle che si sono manifestate nei mesi scorsi: dagli scioperi operai che hanno ottenuto aumenti salariali nelle fabbriche automobilistiche del sud del Paese al malcontento scatenato dal disastro ferroviario di Wenzhou del 23 luglio. «L’inflazione è come una tigre: se riesce a liberarsi, risulta molto difficile rimetterla in gabbia – aveva dichiarato nel marzo scorso il premier Wen Jiabao davanti all’Assemblea nazionale del popolo -. La stabilizzazione dei prezzi dev’essere in cima alle nostre priorità ». Ma l’impresa si sta rivelando più difficile del previsto. E si potrebbe dire che il maiale ha liberato la tigre, perché il mese scorso il costo della carne suina – considerato un alimento base – è salito del 57%. A trainare l’inflazione sono stati proprio i generi alimentari (+14,8%) mentre i non alimentari si sono scesi del 2,9%.
Dall’ottobre scorso, il governo ha provato a fermare i rincari aumentando, cinque volte, i tassi d’interesse e, nove volte, le riserve valutarie delle banche. Ma tutti i segnali indicano che non riuscirà  a contenere «la tigre» entro il limite del 4% fissato per quest’anno. La produzione industriale invece, dopo il +15,1% di giugno, il mese successivo è aumentata solo del 14%, mentre con la crisi Usa-Ue si fa più urgente la necessità  di ridurre la crescita e, in particolare, il peso delle esportazioni sulla formazione del prodotto interno lordo.
«Questi dati avrebbero dovuto spingere la Banca centrale (Pboc) ad aumentare i tassi d’interesse, ma, a causa dell’agitazione sui mercati finanziari, prevediamo che questa mossa sarà  rinviata» ha spiegato al South China Morning Post Wei Yao, economista di Société Générale a Hong Kong. I listini delle borse asiatiche anche ieri hanno fatto segnare in prevalenza segni negativi. L’indice Hang Seng di Hong Kong ha ceduto il 5,7%, sesta perdita consecutiva e livello più basso dalla crisi finanziaria asiatica del 2007. Le altre borse del continente, che in mattinata subivano perdite pesantissime, si sono stabilizzate con l’avvicinarsi della chiusura delle contrattazioni. Il sudcoreano Kospi ha chiuso a -3,6% dopo che era arrivato a perdere il 10%, il giapponese Nikkei a -1,7%, l’australiano S&P/ASX 200 a +1,2%. Gli analisti scommettono per il futuro prossimo sulla «volatilità », alti e (soprattutto) bassi legati all’andamento dell’economia americana, alla crisi del debito europea e a ulteriori «pacchetti di austerità » che, rallentando la domanda interna delle economie sviluppate, freneranno la crescita di quelle asiatiche.


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