L’avvocato eroe, la città  martire i sei mesi di bombardamenti che cambiano la storia del regime

Loading

Ha regnato più a lungo. E per questo ha resistito, ha ucciso, è stato capace di combattere più a lungo. Ma alla fine sei mesi di guerra sono bastati per cancellare di fatto il più spietato dei dittatori del Mediterraneo. Da ieri Muhammar Gheddafi, dopo 41 anni di dittatura, dopo 185 giorni di guerra, non è più capo della Libia.
Non è ancora finita, non è chiaro se Tripoli nei prossimi giorni vedrà  ancora morte e orrore, combattimenti e tradimenti. Non si può prevedere poi quale sarà  la capacità  dei ribelli di controllare la città  e il paese intero. Ma ormai la Tripoli percorsa dagli insorti non è più la capitale del regno del terrore di Muhammar Gheddafi. «È stato il terrore che ci ha paralizzato per anni è anni: ed è la volontà  di sconfiggere il terrore che ci darà  il coraggio di conquistare la nostra libertà »: sono le parole di Fethi Tarbel, il giovane avvocato che in Libia è diventato la scintilla della protesta. Da anni, a Bengasi, Fethi Tarbel, aveva iniziato a chiedere giustizia per le vittime del massacro di Abu Slim, duemila morti trucidati in 3 giorni in un carcere di Tripoli. Il 15 febbraio la polizia libica va a casa di Fethi, lo arresta alla vigilia del 17 febbraio che era stato proclamato “giorno della rabbia” contro il regime Gheddafi. Speravano così di fermare in anticipo la rivolta, di limitare il contagio tunisino ed egiziano. E invece così gli uomini di Gheddafi diedero un motivo in più alla rivolta per diventare immediatamente insurrezione armata.
In poche ore le proteste, i disordini che seguirono all’arresto di Fethi si trasformano in una sommossa: a Bengasi, Tobruk, in tutta la Cirenaica i manifestanti immediatamente assaltano caserme e depositi di armi, si impossessano di Kalashnikov, artiglierie contraeree, saccheggiano i depositi di munizioni. In poche ore, in pochi giorni, la rivolta divampa e si propaga come fuoco nella prateria. «Quella settimana abbiamo avuto davvero paura, terrore», ci diceva la sera del 24 marzo Seif Gheddafi all’hotel Rixos di Tripoli. Solo un mese prima, il 24 febbraio, la rivolta era arrivata addirittura a Misurata, la terza città  del Paese. Diventerà  uno dei simboli del martirio libico, città  massacrata in un assedio spietato e sanguinario durato fino alla fine di maggio.
La reazione sanguinaria dell’esercito di Gheddafi porta già  il 26 febbraio l’Onu a votare le prime sanzioni contro la famiglia Gheddafi, a bloccare beni ed esportazioni di petrolio. Ancora nessuna minaccia di uso della forza, perché nessuno immagina ancora cosa stia per ordinare Gheddafi. Il 5 marzo, quando a Bengasi i ribelli formano il Consiglio Nazionale Transitorio e si dichiarano unico rappresentante legale del popolo libico, loro sì che sanno cosa sta per scatenare Gheddafi. Una vera e propria pulizia etnica fatta contro il suo stesso popolo. Il presidente francese Sarkozy a questo punto sceglie l’azzardo, la scommessa che ha reso possibile al mondo di correre in sostegno ai ribelli di Libia: la Francia il 10 marzo, senza consultarsi con nessuno, riconosce il Cnt come unico rappresentante del popolo libico, e soprattutto avvia un forcing politico e diplomatico incredibile per far votare all’Onu una risoluzione che consenta l’uso delle armi contro il colonnello.
Sarà  una corsa contro il tempo, il 16 marzo Seif Gheddafi dichiara anche a Repubblica e ai giornali italiani che «in 48 ore tutto sarà  finito, i nostri carri armati libereranno Bengasi dai terroristi». L’Onu esita ancora, Cina e Russia si oppongono, ma il colonnello in persona darà  agli indecisi la spinta finale a votargli contro: il 17 marzo l’Onu autorizza l’uso della forza dopo un discorso in cui Gheddafi dice ai ribelli «vi verremo a prendere strada per strada, casa per casa, stanza per stanza, vi spazzeremo via come ratti».
Ancora poche ore e il 19 marzo iniziano gli attacchi, dopo un summit internazionale convocato da Sarkozy a Parigi a cui Berlusconi è costretto a partecipare a forza da Gianni Letta, Franco Frattini e dalle pressioni del Quirinale. I primi raid aerei francesi e inglesi bloccano i carri armati libici che hanno già  iniziato sparare sulle case di Bengasi.
In pochi giorni i raid danno tempo ai ribelli di radunarsi e riprendersi, alla coalizione si affiancano due stati arabi come il Qatar e gli Emirati Arabi Uniti, mentre il 29 a Londra 40 governi convocano la prima conferenza per iniziare a gestire la guerra e pensare anche al dopo-guerra.
Il primo a capire come sarebbe finita è Moussa Koussa: l’ex capo dei servizi segreti di Gheddafi, il principe del tagliagole di Tripoli, da un paio di anni era diventato il ministro degli Esteri del regime. Il 30 marzo, a poche ore dall’ultima apparizione in pubblico a Tripoli, Koussa scompare, defeziona, abbandona Gheddafi e si rifugia in Qatar.
Poche settimane ancora e il 30 maggio compare a Roma Shukry Ghanem, potente ministro del Petrolio di Gheddafi, amico dell’italiano Paolo Scaroni, grande conoscitore delle logiche del potere e del petrolio. Quando in marzo lo avevamo incontrato nella sede vetro e cemento della Noc, l’Eni libica, gli avevamo chiesto se sapeva che inevitabilmente sarebbe finito anche lui sulla lista nera dell’Onu, nell’elenco degli sconfitti. «Si, lo so, sono sicuro che lo faranno, vedremo cosa fare. «, aveva risposto sorridendo. Come lui, uno dopo l’altro, avevano abbandonato Tripoli i più intelligenti e accorti fra i ministri e i generali di Gheddafi.
Il tempo scorre, le battaglie si susseguono incessanti, sembra quasi che Gheddafi sia destinato a resistere per sempre nel suo ridotto di Tripoli, della Libia occidentale. Ma non è così: poco alla volta i governi alleati scongelano i fondi che servono ai ribelli per finanziare la guerra e mandare avanti il paese.
Arrivano armi e istruttori, francesi, qatarini, anche italiani.
L’Aise riesce a entrare in contatto con i ribelli delle Montagne occidentali, quelli che l’altro ieri hanno portato fuori dalla Libia Abdessalam Jallud e che ieri sono entrati a Tripoli assieme ai commandos sbarcati via mare da Misurata.
È il 27 giugno la data in cui l’Onu chiude un’altra porta alle spalle di Gheddafi: fino ad allora il mandato d’arresto della Corte penate internazionale era stato tenuto in sospeso, per permettere al colonnello e ai suoi una via di fuga che evitasse lo scontro finale. Da quel giorno Muhammar Gheddafi, Saif e il capo dei servizi Abdullah Senussi sono ricercati con l’accusa di crimini di guerra.
Inizia un lungo periodo di stallo militare in cui però i ribelli avanzano poderosamente sul fronte politico e diplomatico: violando quasi le loro stesse leggi interne, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Turchia e perfino la piccola e terrorizzabile Tunisia (da parte di Gheddafi) uno alla volta riconoscono il Cnt di Bengasi come unico governo di Libia.
Il 16 luglio nell’isola di Djerba due diplomatici americani danno l’ultimo messaggio a Gheddafi: dimettiti, vattene entro tre giorni oppure aiuteremo i ribelli ad arrivare a Tripoli. Dicono che il capo di gabinetto di Gheddafi, il fedelissimo inviato a negoziare con gli americani, quel giorno fosse stato tentato di rimanersene in Tunisia: il colonnello però gli aveva già  fatto arrestare la famiglia prima di partire.
I giorni finali di Gheddafi sono conosciuti: la trattativa diplomatica avanza disperata, tutti i governi della coalizione alleata ma anche Russia e Cina fidano che l’inviato dell’Onu, il giordano al Khatib, faccia il miracolo. Convinca il colonnello a mollare. Non ci riesce: e allora la Nato attacca ancora più a fondo, il 30 luglio vengono colpiti i ripetitori della tv libica, muoiono anche alcuni tecnici. Su Tripoli la valanga di fuoco non ha più ritegno.
I Mirage francesi e i Tornado britannici aprono la strada ai ribelli che arrivano da Ovest, da Sud e anche da Est, sbarcando dal mare. In marzo, attraversando Tripoli, avevamo visto che Gheddafi aveva fatto piazzare postazioni di artiglieria sul lungomare, proprio per evitare possibili sbarchi. Non è servito a nulla, la Nato ha colpito tutti i suoi cannoni, ha portato i ribelli fin dentro il cuore di Tripoli. Forse la battaglia di Tripoli non è ancora terminata, ma Muhammar Gheddafi dopo 41 anni e 6 mesi è finito.


Related Articles

Svolta in Costa D’Avorio, catturato Gbagbo

Loading

Il presidente uscente arrestato in un blitz condotto da truppe francesi e dell’Onu

Strage di Kandahar, protestano i familiari dei civili uccisi

Loading

USA/AFGHANISTAN
«Abbiamo fatto tutta questa strada dall’Afghanistan per vedere se si facesse giustizia. Ma non è stato così. È stata fatta alla maniera americana. Volevamo che l’assassino fosse condannato a morte, ma il nostro desiderio non è stato esaudito».

Supertalebani

Loading

Un pugno di guerriglieri travestiti da donna riesce a penetrare nell’area più sorvegliata di Kabul e tiene in scacco per venti ore centinaia di soldati americani e afgani

No comments

Write a comment
No Comments Yet! You can be first to comment this post!

Write a Comment