L’ultimo scandalo della Città  Proibita

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PECHINO. Si chiama “Città  Proibita” ma potrebbe essere ribattezzata “Città  Concessa”. Inaccessibile in epoca imperiale, ermeticamente chiuso ai tempi di Mao, il simbolo della millenaria cultura cinese si sta trasformando nel self-service privato dei funzionari post-comunisti. Il più importante museo della Cina, nel cuore di Pechino, è scosso dagli scandali e le autorità  della capitale temono di non riuscire a frenare l’indignazione e la rabbia che montano sul web. Furti, pezzi di inestimabile valore distrutti, padiglioni trasformati in privè per vip, crolli e collezioni in rovina: Pompei e l’Accademia di Brera in confronto sembrano caveau svizzeri e il governo cinese, messo in imbarazzo dalle denunce della stessa stampa di partito, teme di non ottenere più prestiti dall’estero per esposizioni già  programmate.
L’ultima beffa, denunciata dal settimanale Caixin, ricorda Totò che cercava di vendere il Colosseo ai turisti americani. Le guide cinesi, con la complicità  dei funzionari dell’amministrazione, non promettevano la cessione di una camera con vista su piazza Tiananmen. Consideravano però la Città  Proibita come un bene di proprietà  e semplicemente si intascavano i soldi dei biglietti. Meccanismo elementare: riscuotevano dalle comitive dei visitatori il denaro per l’acquisto dei tagliandi, ma invece di acquistarli facevano entrare tutti gratis. A fine giornata il ricavato veniva diviso con guardie, controllori e dirigenti del museo.
Impossibile quantificare le perdite, perché nessuno ha potuto registrare gli ingressi reali. Il portavoce della società  che gestisce il “Palace Museum” ha ammesso ieri che ammontano ad «alcuni milioni di euro». La truffa, secondo i giudici, potrebbe rivelarsi colossale. Lo scorso anno la Città  Proibita, museo più grande del mondo ricavato nella secolare residenza delle dinastie che da qui governavano la Cina, ha fatturato 60 milioni di euro, staccando quasi 13 milioni di biglietti. Se solo il dieci per cento dei visitatori hanno versato la tariffa nelle tasche dei dipendenti, il ministero delle Finanze avrebbe perso circa sei milioni, da moltiplicare per gli anni in cui il raggiro è stato possibile.
A inchiodare guide e funzionari, le telecamere. Hanno filmato alcuni dirigenti mentre ricattavano i colpevoli, pretendendo mazzette da 20 mila euro in cambio del silenzio. I vertici della struttura, patrimonio dell’Unesco, sono stati costretti ad ammettere che «uno schema di gestione poco trasparente ha lasciato aperte le porte alla corruzione».
Nel mirino però ora c’è l’intero sistema culturale del Paese, accusato di ridurre i massimi tesori dell’arte mondiale a merce da vendere agli operatori turistici, o al migliore offerente. La polizia indaga su una maxi truffa che coinvolgerebbe lo stesso mausoleo di Mao, luogo sacro alla Patria, e gli scavi dell’esercito di terracotta di Xian.
L’epicentro degli scandali resta però la Città  Proibita. La settimana scorsa un prezioso piatto in ceramica della dinastia Song è andato in mille pezzi nel corso di un tentativo di restauro. La direzione del museo ha smentito, salvo poi negare un commento dopo che sono state pubblicate le foto dell’opera in frantumi. Ai primi di maggio un ladro è riuscito a nascondersi nel palazzo Feng Nai’en e a restarci indisturbato per tutta la notte. Ha rubato nove pezzi della collezione Yiu-fai, prestata dal Museo Liangyi di Hong Kong, riuscendo a svignarsela senza essere ripreso dalle telecamere. Arrestato dopo alcuni giorni in circostanze rocambolesche, mentre il ministero della Cultura si copriva di ridicolo, fino a oggi è riuscito a non restituire tutte le opere sottratte.
A fine maggio è poi esploso il caso del “Club dei Cinquecento”, denunciato dalla tivù di Stato. Lo Jianfu Palace, uno tra i più ricchi della Città  Proibita, era stato concesso ad una società  privata per essere trasformato in un circolo esclusivo per politici, funzionari, imprenditori e nuovi milionari. Il club vip aperto in un’ala del museo offriva banchetti, feste e spettacoli: il tutto per sole 500 star del potere, che versavano un’iscrizione annuale di 100mila euro.
La Cina degli ex compagni delle comuni rosse ha così scoperto che ciò che resta del suo patrimonio artistico è ormai tra i più ambiti strumenti usati per scavare un abisso di differenza tra i pochi ricchi e i molti poveri. Palazzi imperiali, edifici storici e templi buddisti si trasformano in hotel a cinque stelle, centri benessere e shopping center. Arricchirsi sarà  pure glorioso, dopo Deng Xiaoping: ma forse il padre del capitalismo di partito non intendeva dire a colpi di mazzette.


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