LE DUE GUERRE DI LIBIA

Loading

Il regime non può più governare la Libia, ma non rinuncia a distruggerla. Dalle macerie della dittatura fiorirà  uno Stato unitario, più o meno assimilabile a una democrazia, con un leader eletto e riconosciuto da tutti i cittadini libici (pur se non sappiamo chi e quanti sono, in assenza di un censimento)? Oppure sarà  guerra civile permanente? O il pendolo della storia si fermerà  in qualche punto intermedio fra i due estremi?
Di sicuro, per ora, c’è che il vecchio regime sta sbriciolandosi e che milioni di libici festeggiano, liberi finalmente di immaginare una vita migliore. E mentre si dedicano a stroncare le sacche di resistenza degli ultrà  gheddafisti – o dei disperati che non sanno a chi arrendersi senza rischiare la pelle – gli insorti già  pensano a determinare i nuovi rapporti di forza. Chi fra loro comanderà , su quali territori e risorse, secondo quali regole o equilibri?
In attesa che la polvere delle opposte propagande si depositi per aprire lo sguardo sull’orizzonte futuro, qualche illuminazione possiamo forse trarla dal modo in cui l’edificio gheddafiano si sta schiantando.
C’è un tratto comune nella fine di ogni tiranno: la perdita del senso della realtà . Come altri dittatori accecati dal potere, anche Gheddafi si era costruito un universo irreale. Quasi a immaginarsi eterno e invincibile. L’eco di tale paranoia risuona negli appelli lanciati durante la battaglia di Tripoli, a invocare una ad una brigate fantasma, tribù ormai convertite alla causa della vittoria, milizie popolari di questo o quel quartiere, che un tempo sarebbero scattate in massa all’appello del qaid, inconcussa guida della rivoluzione, ma che ora aspettavano solo la fine del massacro.
Gheddafi era da tempo un cadavere politico. La rapidità  dell’avanzata finale su Tripoli, in cui non è peraltro difficile scorgere la mano professionale dell’intelligence e di forze speciali occidentali, conferma che il regime era marcio. Le sue architravi erano tarmate e usurate. In retrospettiva, i sei lunghi mesi di guerra – non i pochi giorni pronosticati in Occidente sull’entusiasmo dell’insurrezione di Bengasi – sono non tanto il prodotto della resistenza di Gheddafi, quanto delle divisioni tra chi ambiva ad abbatterlo per prenderne il posto.
Abbiamo assistito finora a due guerre parallele. Una calda e sanguinosa, tra i ribelli della Cirenaica e i loro alleati in Tripolitania e nel Fezzan, che con il sostegno delle potenze occidentali puntavano a finirla con il regime per aprire una nuova pagina nella storia della Libia. L’altra prevalentemente fredda e sotterranea, ma talvolta violenta (vedi il misterioso assassinio del generale Younes), fra le assai eterogenee componenti della coalizione anti-gheddafiana: islamisti e laici, conservatori e progressisti, esponenti tribali o di gruppi etnici particolarmente oppressi dal regime, berberi in testa. Unico fattore comune, la più o meno antica matrice gheddafista dei capi del Consiglio nazionale di transizione.
In questo senso, il crepuscolo del colonnello può essere descritto come la progressiva e sempre più rapida diserzione dei suoi accoliti. Quasi un prolungato, strisciante colpo di Stato – avviato ben prima della rivolta di Bengasi – di chi si rendeva conto di non aver più nulla da guadagnare dal regime e perciò lo abbandonava. Perdendo foglia dopo foglia, la pianta del regime si è spogliata fino a esibire la radice ormai esausta: il colonnello e i suoi figli.
Il pericolo non è solo che da quella pianta morente emanino ancora veleni mortali, sotto forma di guerriglia, attentati, colpi di mano dei nostalgici del vecchio regime, a Tripoli come nella Sirtica o nel Fezzan. È soprattutto che la coalizione prodotta dalla necessità  di eliminare Gheddafi si scopra troppo incoerente, che gli interessi particolari – tribali, etnici, regionali – prevalgano sulla necessità  di costruire finalmente istituzioni libere nella Libia riunita. Un avvitamento di tipo iracheno, se non somalo. D’altronde, le performance del gruppo di Bengasi non sono incoraggianti quanto a capacità  politiche e di gestione. Né si deve dimenticare che l’assalto finale a Tripoli è venuto principalmente dall’Ovest e dalle montagne a prevalenza berbera, con il fronte orientale bloccato a Brega. Non sarà  facile ricucire le antiche rivalità  e le diffidenze fra tripolitani e cirenaici, o fra arabi, berberi e neri (questi ultimi assai compromessi col regime).
La speranza è che la fine della dittatura sia anche l’inizio della pacificazione fra le genti libiche e della costruzione di uno Stato unitario che non esiste, se mai è esistito. Per fortuna, la storia ha spesso più fantasia di chi prova a interpretarla. Le potenze europee ed atlantiche non possono comunque sottrarsi alle responsabilità  che hanno voluto assumersi nel conflitto libico. Scesi in campo per un’improbabile “guerra umanitaria” – di fatto per cambiare il regime – la tentazione degli occidentali è di cantare vittoria, spartirsi le spoglie energetiche e tornare a occuparsi dei fatti propri. In tal caso la sconfitta è assicurata. Sconfitta dei libici che sperano in un futuro di pace, benessere e libertà . Ma anche di noi italiani ed altri europei che li avremo, come d’abitudine, usati e traditi.


Related Articles

Ora Kiev vuole lo scudo antimissile. Ma gli Usa (e la Nato) frenano

Loading

Vertice di Riga. Washington: «Né Usa, né Nato pianificano tali azioni contro la Russia»

Richard Falk: Gerusalemme non è la capitale di Israele

Loading

Israele a tutt’oggi si è rifiutata di definire il limite dei propri confini per finalità di diritto internazionale

L’Iran spara su un drone Usa

Loading

 Il Pentagono: “Pronti a rispondere”.  L’attacco otto giorni fa, nello spazio aereo internazionale sul Golfo  

No comments

Write a comment
No Comments Yet! You can be first to comment this post!

Write a Comment