Le imprese sono credibili, ora tocca allo Stato

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Ci battono, dunque, ma per una volta solo al fotofinish. E lo 0,7%a nostro svantaggio nell’export 2011 è una bazzecola rispetto agli oltre 300 punti base di spread che separano l’affidabilità  dei Bund tedeschi da quella dei nostri Btp. Duole dirlo, ma le nostre imprese sono nettamente più credibili e competitive del nostro Stato.
Sembra incredibile che in questa travagliata estate del 2011 possano spuntare notizie come questa ma il dato è di ieri e proviene dall’analisi dei settori industriali che Prometeia e Intesa-Sanpaolo redigono periodicamente con grande professionalità . L’Italia delle imprese, grandi e piccole, si batte dunque giorno per giorno sui mercati esteri nonostante che il governo abbia incredibilmente pasticciato sulla riforma dell’Istituto del commercio estero, diventata poi per strada un’abolizione secca. Le indiscrezioni che arrivano dalle piazze commerciali sono preoccupanti: spazi espositivi alle fiere disdetti all’ultimo momento, funzionari che non hanno potere di firma, progetti in bilico, eppure il made in Italy non si ferma e corre come una Pellegrini. Parlare della straordinaria vitalità  delle imprese italiane serve più di tante parole di circostanza a spiegare il valore dell’iniziativa avviata in questi giorni dalle forze sociali. Guai a valutarla solo adottando un’ottica romana, guai di conseguenza a compilare un miope catalogo delle convenienze. Dietro quel documento più che un elenco di sigle c’è un’Italia che non si arrende e chiede alla politica di fare il suo mestiere. Un’Italia che per buona parte alle ultime politiche ha votato per il centro-destra e oggi si sente delusa. Quando furono resi noti i punti-chiave della manovra di rientro ideata dal governo e furono avanzate le prime critiche per la debolezza delle misure pro-crescita, ministri ed esponenti della maggioranza reagirono nervosamente. Ora lo dichiarano tranquillamente anche i più ligi: sarà  per un deficit di competenze, sarà  per la difficoltà  obiettiva di varare misure immediatamente redditizie, non abbiamo un’agenda — forse neanche un block notes — della crescita. Nei mesi scorsi abbiamo sprecato l’occasione del Pnr, il piano di riforme che Bruxelles da quest’anno chiede ai Paesi membri. Andate a consultare i rispettivi documenti di Italia, Francia e Germania (Corriere, 6 luglio 2011) e vedrete la differenza. Laddove Parigi e Berlino avevano individuato il loro asse di sviluppo, noi abbiamo balbettato. Bene hanno fatto dunque Marcegaglia, Mussari, Malavasi, Marino, Bonanni, Camusso e gli altri a prendere l’iniziativa. Tutti i leader delle categorie produttive sanno benissimo che siamo entrati in una fase «geneticamente» nuova delle politiche pubbliche e sono coscienti che da oggi in poi non si potrà  più produrre crescita tramite incremento della spesa. Non per questo si sono arresi e del resto non potrebbero, gli uni perché devono rendere conto agli imprenditori del «più 17%» e gli altri perché hanno una responsabilità  nei confronti dei lavoratori che stanno firmando ovunque accordi aziendali orientati all’aumento di produttività  e alla condivisione degli obiettivi. Seppur con qualche ritardo, bene ha fatto anche il governo a prendere sul serio il manifesto delle parti sociali e a organizzare un incontro formale per giovedì 4 a Roma. Ma attenzione, stavolta gli italiani non vogliono vertici ad uso dei fotografi o, peggio, kermesse oratorie. I cittadini che si stanno concedendo una pausa per le meritate ferie e i loro connazionali che quest’anno non avranno i soldi per lasciare la città  hanno un’aspettativa in comune: pregano che da quella riunione esca un messaggio chiaro, un’inversione di tendenz a , u n a s c o s s a , u n a discontinuità . Scegliete la metafora che volete ma governo e parti sociali hanno solo 48 ore per prepararla. Non sprecatele.


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