Liberi dopo un giorno da incubo

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TRIPOLI. Claudio Monici, inviato dell’Avvenire, rievoca la giornata più lunga: «Eravamo arrivati a Tripoli in tarda mattinata, abbiamo visto arrivare i convogli dei ribelli di Misurata nella piazza Verde, ormai piena di gente, abbiamo visto la festa, la frenesia. Poi abbiamo preso l’auto per andare all’hotel, ci siamo diretti verso il Rixos, prendendo la strada che costeggia il complesso di Bab Al Aziziya, dove c’è il bunker di Gheddafi. Siamo passati vicino al centro commerciale proprietà  di Aisha, la figlia del colonnello. A un certo punto ci siamo trovati su una strada larga, completamente vuota, senza traffico, silenziosa. Io ero seduto davanti, accanto ad Al Mahdi, il nostro autista. Ho avuto l’impressione che ci fosse qualcosa che non andava, ho chiesto di fermarci, ma prima che riuscissimo a tornare indietro da una via laterale è sbucato un gruppo di armati. Pensavamo fossero ribelli, che tutto fosse a posto, invece ci hanno bloccati, ci hanno costretti con i kalashnikov puntati a scendere dall’auto, e ci hanno spinto in un angolo».
A quel punto è cominciato l’incubo: domande urlate in arabo, la scoperta che erano italiani, e giornalisti, spintoni, pugni, calci. «Io avevo addosso questa maglietta del Paris St Germain», racconta Domenico Quirico, inviato della Stampa, «e all’inizio mi hanno preso per francese. Mi gridavano “Sarkozy assassino”, mi hanno dato un colpo in testa con il calcio di un fucile». Riesce a trovare la voglia di scherzare: «Mi hanno preso tutto, spero che La Stampa non mi licenzi per aver perso un altro computer, dopo quello finito in fondo al Mediterraneo quando sono naufragato sul barcone tunisino diretto a Lampedusa». Giuseppe Sarcina, inviato del Corriere, ha sul viso le tracce dei pugni e i pantaloni con tracce delle ferite: «Non erano solo soldati, c’erano miliziani, ne ricordo uno vestito con la maglia del Milan».
Caricati a forza su un pick-up sporco di sangue, i quattro italiani e l’autista sono stati portati via solo per pochi metri. Poi il fuoristrada si è fermato, l’autista libico è stato strappato fuori. «Eravamo schiacciati in cinque su due posti. Mahdi era seduto accanto a me, rannicchiato, a testa bassa. Ho visto le sue labbra che si muovevano, ho avuto come un lampo, ho capito. Stava pregando. Sapeva che l’avrebbero ucciso», racconta Monici. Poi la sua voce si rompe un momento. Quando riprende a parlare lo sguardo è un po’ velato: «Non so come, a un certo punto l’ho visto fuori, in piedi, a una decina di metri da noi. Ecco, su quello che è successo dopo ho come un vuoto dei suoni. Non ricordo raffiche, non mi viene in mente nemmeno un rumore. Ricordo una figura che si inchina, si ribalta, cade a terra». È stato il passaporto con su scritto Zintan a costare la vita al giovane. Veniva dal feudo dei ribelli. I fedelissimi del colonnello l’hanno ucciso a freddo con una sventagliata di kalashnikov.
Gli italiani sono stati portati in una strada chiusa del quartiere, dove subito si è riunito un centinaio di persone urlanti. Non c’era nemmeno un comandante, tutti gridavano, qualcuno sparava in aria, qualcuno per terra. «Chissà , forse la mia presenza ha fatto arrabbiare ancora di più i gheddafiani», dice la Rosaspina del Corriere, unica donna del gruppo, ancora incredula di essere viva. Ma forse è vero il contrario: probabilmente la sua presenza è servita a “spiazzare” i più arrabbiati.
È stato quello il momento decisivo, quando sono intervenuti “gli angeli”, come li chiama Sarcina: diversi civili, fra cui due giovani sulla ventina, hanno fermato i miliziani più accaniti, li hanno convinti a portare i prigionieri davanti a un alto ufficiale, perché decidesse della loro sorte. I quattro sono stati rinchiusi in un garage seminterrato. «Anche allora c’era qualcuno che si affacciava alla finestrella, ci guardava, faceva cenno di tagliarci la gola», racconta Quirico. Poi i due giovani, evidentemente legati ai clan più potenti, hanno utilizzato l’influenza tribale per raffreddare gli animi, sono riusciti a ottenere di trasferire i prigionieri nella casa di uno dei due: «Lì la musica è cambiata, siamo diventati ospiti. Ci hanno offerto il caffè, da mangiare, ci hanno dato persino un letto per dormire. Ma io non sono riuscito a chiudere occhio», racconta Sarcina.
Alla fine i due ragazzi sono riusciti a trovare la via d’uscita: caricati su un camion gli italiani, lentamente, con un lungo giro, li hanno portati all’hotel Rixos, controllato dai ribelli. Anche qui, evidentemente, i legami familiari sono serviti ad evitare uno scontro. Spiega Domenico Quirico: «Per un momento ho persino creduto che volessero usare l’opportunità  della nostra presenza per passare dall’altra parte. Invece no. Erano gheddafiani, sono tornati dalla loro parte. Ma erano comunque persone straordinarie, persone per bene. Io credo che Dio esista nelle azioni degli uomini: noi abbiamo incontrato due persone che l’hanno dimostrato, hanno concretizzato la presenza del divino nel mondo».
A quel punto, liberi e ospiti dei ribelli, i quattro ex prigionieri sono diventati anch’essi oggetto di giubilo, in una sfilata per ogni posto di blocco, con i ragazzi a fare la V di Churchill. Ma non c’era gioia, il pensiero tornava a Mahdi, ucciso a freddo. E anche ai due liberatori. Racconta Monici: «Quando ci hanno liberato, sono finito da solo in una macchina dei ribelli, i colleghi erano tutti e tre in un’altra vettura. Mi chiedevo che cosa fosse successo, che cosa fosse intervenuto a salvarci. Me l’ha spiegato l’autista della mia macchina, che guidava continuando a girarsi per sorridere nella mia direzione. A lui i due “angeli” l’avevano detto in modo esplicito: lo facciamo in segno di rispetto per il nome di Dio».


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