L’Italia e la guerra L’Islam e il dialogo

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 17 mila missioni aeree con 6.500 «air strikes» non sono bastate per piegare la forza di un uomo melenso, effemminato e non più giovanotto (settant’anni per un libico non sono pochi) quale Gheddafi oggi appare. L’Occidente non è riuscito a piegare «il pazzo di Tripoli» deambulante nel suo scatolone di sabbia.

La Libia, nonostante il riscatto economico vissuto negli ultimi decenni (il pil pro capite si attesta attorno ai 18 mila dollari rappresentando il primato tra i paesi del Nord Africa), resta pur sempre un luogo sfortunato ed impervio, soggetto ad una secolare desertificazione che avanza imperterrita. 6 milioni di persone sono distribuite su un territorio che è circa sei volte l’Italia. Stando a quello che dice Gheddafi non vi sarebbe una sola famiglia in Libia che ancora oggi non annoveri tra i suoi parenti una vittima del colonialismo italiano. Questo colonialismo, giolittiano prima e fascista in seguito, provocò il decesso di 100.000 libici mediante l’uso di campi di concentramento, gas velenosi, e deportazioni che ebbero luogo a partire dal 1911. E questo è un fatto le cui conseguenze nessuno potrà  evitare se è valido quel principio della fisica secondo cui ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. Gheddafi stesso è solito mostrare ai giornalisti una cicatrice molto grossa sul suo braccio procuratagli dall’esplosione di una mina italiana in età  ancora puerile. Però è anche vero che sussistono molti fattori di natura storica, antropologica ed economica, tali da favorire una pacifica convivenza tra i due paesi. A parte le voci di una presunta origine ebraica se non anche italiana di Gheddafi, che poco conta tuttavia, posti sulla soglia d’Oriente come siamo, già  a partire dalle prime invasioni arabe del VII secolo d.C. , avutesi in seguito alla morte di Maometto (632 d.C.), molti libici sono venuti ad abitare le terre di Sicilia, di Napoli, della Liguria, di Venezia. Le isole di Ponza e le Tremiti poi furono luoghi di deportazione delle vittime del colonialismo. Ancor prima di questi accadimenti, in epoca classica, Roma ebbe un valoroso imperatore libico, Settimio Severo (146-211 d.C.), che sposò una siriana di Homs, Giulia Domna, dacché il futuro imperatore Caracalla, loro figliolo, fu un perfetto orientale (come lo furono molti altri imperatori e personaggi di rilievo nell’Italia classica). Nel corso del dopoguerra poi molti sono stati gli sforzi diplomatici per avvicinare i due paesi .
Si parla oggi per l’Italia di perdite in termini di commesse pari a circa 4 miliardi di euro a causa delle operazioni militari Nato in Libia e della conseguente rottura dei rapporti d’interscambio. Importavamo il 40% del greggio dalla Libia (tra l’altro di ottima qualità ) e ora il prezzo della benzina nel nostro paese è alle stelle. Questa guerra inoltre, ci è costata circa 700 milioni di euro per i soli primi tre mesi.
Pur tuttavia i richiami del presidente Napolitano, di Romano Prodi e di autorevoli voci quali ad esempio quella di Pietro Ingrao, non potevano restare inascoltate: quel «mascalzone» andava fermato, e l’Italia non poteva assumere una posizione autonoma rispetto alla Nato, al pari ad esempio della Germania, nonostante il favore in tal senso della chiesa che da subito si è pronunciata per un immediato cessate il fuoco e per l’avvio dei negoziati.
Varrebbe la pena forse di chiederci come mai l’Italia non possa permettersi di assumere posizioni autonome nell’ambito di organizzazioni internazionali quali la Nato che scricchiolano oramai su ogni versante e rappresentano per noi sempre più una rimessa piuttosto che un vantaggio.
Sarebbe ingenuo non avvertire la sincronicità  della primavera araba col crollo dei mercati occidentali. Il mondo islamico, nelle sue sanguinose collisioni interne, si riorganizza, si rimescola, e avanza con le sue pretese, a volte esclusiviste, di riscatto dalla precarietà , dalla povertà , dalla fame. I Senussi della Cirenaica in Libia chiedono i proventi del loro petrolio, i giovani laureati del Nord Africa chiedono ai loro governi filo-occidentali quanto di minimo e più naturale possa esserci, il lavoro che gli spetta. La costellazione sciita in genere rivendica le proprie origini indoeuropee e le tradizione persiane, differenziandosi delle genti semitiche d’Arabia che da millenni esercitano la loro pressione dal basso e che oggi rappresentano, con le loro penetrazioni in Medio Oriente, la maggioranza islamica sunnita.
Non è vero quel luogo comune secondo cui l’Islam non dialoga. Se non si raggiunge il dialogo il problema non può concentrarsi tutto in una sola tra le due parti, ma evidenzia piuttosto il fatto che ambo le parti non aspirano al dialogo.
Qualche giorno dopo che il giovane Mohamed Bouazizi si dava fuoco in Tunisia, lo scrittore Raffaele La Capria osservava sul Corriere come lo scambio di armi per petrolio rappresenti ancora la principale forma di dialogo tra i due mondi. Un vero e proprio «circolo vizioso» rispetto al quale l’editorialista del Guarian Johnatan Fredland osservava come per i dittatori il suo paese, la Gran Bretagna, avesse sempre pronte due soluzioni, un tappeto rosso o un tappeto di bombe, «possibile che non esista una terza via?» si domandava.


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