«La democrazia in fabbrica migliora i conti»

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 LUCCA.Sergio Casella è l’amministratore delegato della Pcmc – meglio conosciuta come Paper Converting – di proprietà  del gruppo statunitense Barry-Wehmiller. Per primo, già  nell’estate scorsa, si è dissociato dalla linea confindustriale e ha sottoscritto l’applicazione del contratto unitario metalmeccanico del 2008. Al lavoro anche in questa prima settimana di agosto nel suo ufficio di Diecimo, tira le somme di quanto accaduto nel frattempo.

Vista a posteriori, soprattutto visti gli incrementi di fatturato e di utili per l’azienda, la decisione di firmare il contratto unitario si è rivelata vincente. Ma in quel momento?
Per rispondere dobbiamo fare un passo indietro. Noi stavamo uscendo da una crisi, repentina, che aveva fatto crollare della metà  il nostro fatturato. Dalla casa madre Usa il «consiglio» era quello di mandare in mobilità  40 addetti, in una fabbrica dove siamo in tutto 110. La mia controproposta è stata: investiamo sulle persone, e invece di tagliare applichiamo una forma di «solidarietà  allargata», in modo da continuare a lavorare tutti anche se con meno ore complessive. Riducendo gli stipendi, e i benefit, più ai dirigenti che agli operai. Ci abbiamo creduto in due, l’azienda e la Fiom. Ha funzionato, perché in meno di un anno eravamo già  fuori dalla solidarietà . Nel frattempo ho visto, con gran piacere, che i nostri ingegneri non si tiravano indietro quando c’era da indossare la tuta e montare personalmente i macchinari. Alla fine nessuno ha abbandonato l’azienda, e anche con un po’ di fortuna abbiamo avuto una impennata tale di ordinativi che i vertici della Barry-Wehmiller ci hanno fatto sapere: con la vostra strategia d’azione avete risolto un serio problema di politica aziendale per l’intero gruppo, che conta complessivamente 6mila addetti. Oggi Barry-Wehmiller non licenzia più nemmeno negli Usa: adattando al loro sistema di relazioni industriali il nostro modello, quando ci sono problemi invece di mandare a casa la gente chiedono loro di fare più ferie, che non sono pagate. Però si resta a far parte dell’azienda. E questo porta a rasserenare il clima generale, fattore importantissimo anche per i rapporti con i clienti. A questo punto rispondo alla domanda: abbiamo sottoscritto il contratto unitario del 2008 perché un’azienda non fallisce se aumenta gli stipendi. Fallisce se non innova; se non segue i clienti; se si viene a creare un clima negativo in fabbrica.
Molte aziende del comparto dei macchinari per la carta, ma anche di altri settori produttivi, hanno seguito il vostro esempio. Alcune senza colpo ferire, altre dopo vertenze che in alcuni casi sono state piuttosto lunghe e non facili. Le chiedo: non potevano essere evitati quei conflitti?
Secondo me sì. Premetto che, per mia natura, vedo nella controparte non un nemico ma un’opportunità  di confronto, chiaro ma leale. Io all’inizio non conoscevo il segretario della Fiom, Braccini. Ma con il tempo il rapporto di fiducia reciproca che si viene a creare, e che poi si diffonde anche in fabbrica, può far evitare il muro contro muro.
E questo clima produce effetti positivi?
Guardiamo i nostri principali concorrenti della Perini-Koerber, che pure sono il triplo di noi per numero di addetti in fabbrica. Loro hanno seguito in modo pedissequo la linea confindustriale, che era il frutto di una decisione politica e non industriale. Il risultato è stato che durante la vertenza alla Perini noi abbiamo raddoppiato gli ordinativi, da 30 milioni di dollari siamo saliti a 60 milioni. Nello stesso periodo loro hanno perso. E i clienti, che non di rado scelgono anche sulla base delle sensazioni, hanno percepito il clima di sfiducia in fabbrica e si sono allontanati. Perché si sentivano abbandonati, lo capivano da tante piccole cose come i discorsi fra i tecnici delle diverse aziende, uno dei quali era soddisfatto e l’altro no. Si chiamano «costi nascosti», sono quelli che non rientrano nell’ambito degli scioperi o del blocco degli straordinari. Ma sono più salati degli altri, perché minano la fiducia del cliente nell’azienda fornitrice.
Un’ultima domanda: premesso il livello di eccellenza di tutto il vostro comparto, anche sui fattori della ricerca e dell’innovazione, le chiedo: può essere esportabile questo «modello lucchese»? A 360 gradi, con la capacità  di offrire prodotti sempre all’altezza delle richieste, e quella di garantire ai lavoratori migliori condizioni di vita e di stipendio?
Anche su questo credo di sì. Il problema piuttosto è quello di una industria italiana che ha un approccio «antico» a temi del genere. Credo sia un problema generazionale, provocato dalla mancanza di un adeguato ricambio. In altre parole, penso che a molti manchi la capacità  di immaginare il futuro, e di lavorare per farlo diventare il prima possibile realtà . Credo sia un punto di vista e un modus operandi essenziali, sia per progettare, costruire e vendere il proprio prodotto, sia di conseguenza per garantire miglioramenti a chi contribuisce fattivamente alla riuscita dell’intero progetto. Nel nostro caso poi, dove la tecnologia è elevatissima, tutti i fattori che contribuiscono al successo della produzione devono essere tenuti in massimo conto. Quelli «umani», secondo me, ancora più degli altri. Perché i nostri clienti ci chiedono macchine che non facciano errori, e sono disposti anche a pagare di più per avere questi livelli di qualità . Per farle però occorre il concorso di tutti. Nessuno escluso.


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