«Per sfondare l’anello di difesa abbiamo usato degli infiltrati»

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TRIPOLI — Ha quarantanove anni e fino a sei mesi fa era un affermato businessman di tappeti l’uomo ora al comando delle truppe che cercano di battere i miliziani di Gheddafi a Tripoli. Hisham Abu Handja guida quattro brigate di ribelli che da tre giorni sono entrate nella città  â€” la Trablus al Hamra, museo di Tripoli, la Thwart Trablus, rivoluzione di Tripoli, la Shuada al Hassem, martiri della capitale, e la Al Kaka, la fenice. «Ci preparavamo da oltre due mesi e mezzo nelle montagne di Nafusa, con addestramenti intensi, su un piano preciso che alla prova dei fatti abbiamo messo in pratica quasi alla lettera», raccontava ieri pomeriggio nella sua nuova base, che si trova nella ex accademia per donne poliziotto nel quartiere di Shuk al Talat di Tripoli.
Mentre ancora fervono i preparativi per mettere in sicurezza la capitale, il comandante accetta di fornire alcuni dettagli dell’avanzata. Il più interessante: «C’erano venticinque alti ufficiali nell’entourage militare di Gheddafi che da tempo intendevano disertare per unirsi alla rivoluzione. Li abbiamo convinti a restare ai loro posti per fornirci vitali informazioni di intelligence. Sono stati proprio loro la chiave di volta che ci ha permesso, tra l’altro, di catturare i figli del Colonnello in tempi rapidissimi. Peccato che lui sia riuscito a fuggire. Ma crediamo di sapere dove si trova», rivela. Aggiunge poi un altro particolare: «Gheddafi è scappato verso Sud, nel deserto, fra le tribù più fedeli. Forse si trova nel villaggio di Urban, a ottanta chilometri dalla capitale. Se così fosse, prenderlo sarà  molto difficile, può travestirsi da beduino e nascondersi, prima di sparire verso l’Africa profonda».
Il comandante non vuole foto e nemmeno troppa pubblicità , eppure ammette di essere uno dei tre «ufficiali» che guidano le forze militari della rivoluzione. Gli altri, a suo dire, sono Majid Uletan e Othman Abdel Salim, in contatto diretto con i massimi dirigenti del Consiglio nazionale transitorio a Bengasi. «Prima d’ora non mi ero mai occupato di faccende militari», minimizza. Dopo aver avviato la sua fabbrica di tappeti, nota anche all’estero, nel 1984 il comandante Hisham Abu Handja va in esilio. «Non potevo sopportare l’oppressione della dittatura». Viaggia e lavora negli Stati Uniti, in Egitto, in Giordania e Ciad. Torna a Tripoli dieci anni fa, ma come altri spera che le cose cambino. «Allo scoppio della rivoluzione del 17 febbraio — racconta — mi sono unito subito ai ribelli nella zona di Zintan e Nafusa, un misto tribù berbere e arabi fieri».
Il comandante ha un fare quasi manageriale, ascolta in silenzio, poi impartisce ordini con voce pacata, ma perentoria. Dice: «Dobbiamo assolutamente ridare una vita normale a questa città ». E così racconta il piano di attacco, scattato all’ora x, già  fissata da tempo: «Le 8 di sabato sera». Un piano fondato su tre punti di forza: «Prima gli attacchi mirati della Nato, seguiti dalle rivolte nella capitale, fomentate da ribelli infiltrati, e quindi l’arrivo delle colonne della rivoluzione dalle periferie». Quali sono stati i problemi maggiori? «La Nato, su 28 obiettivi assegnati, ne ha colpiti soltanto cinque. Una grande delusione». E i punti forza? «Certamente i ribelli mandati nelle settimane scorse tra la gente di Tripoli — conclude il comandante — sono stati impeccabili, la vera scintilla delle sommosse popolari».


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