Ma solo l’equità  è sostenibile

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Come volevasi dimostrare, non sarà  possibile un semplice cambiamento nella tempistica della manovra economica varata nello scorso mese di luglio per raggiungere con un anno di anticipo il bilancio in pareggio. Lo ha riconosciuto lo stesso ministro dell’Economia Giulio Tremonti prima nell’incontro con le parti sociali e poi nell’audizione alla Camera di ieri.
Ha parlato di “ristrutturazione della manovra” nonostante avesse dichiarato solo qualche giorno prima che tutto sarebbe rimasto come prima, con il solo anticipo di un anno dei vari provvedimenti.
Anche nell’audizione di ieri il ministro Tremonti ha dato però un’impressione di totale improvvisazione. Rischiamo così di trovarci dopo il prossimo Consiglio dei ministri, forse già  oggi, solo con i dilatori e inutili (se non sbagliati) interventi sulla Costituzione e qualche balzello estemporaneo in più. Peccato perché la crisi ci offre un’opportunità  per migliorare una manovra mal congegnata dall’inizio e poi rattoppata “con un tacon peggio del buso”. Bisognerà  rafforzarla quantitativamente dato che il peggioramento della congiuntura rende più oneroso l’aggiustamento, ma soprattutto qualitativamente. Il principio cardine deve essere quello di essere equi, al contrario di quanto previsto da una manovra che allo stato attuale, con la clausola di salvaguardia sulla riforma fiscale e assistenziale, comporta tagli doppi in termini assoluti per chi ha redditi medio-bassi rispetto al 10 per cento più ricco della popolazione.
Oggi equità  è più che mai sinonimo di sostenibilità  dell’aggiustamento. Per tre motivi.
Primo: questa è una manovra che viene percepita come imposta dalle grandi istituzioni internazionali. È una percezione alimentata dall’inadeguatezza di questo governo, che avrebbe dovuto agire per tempo, anziché trovarsi nelle condizioni di intervenire con la pistola puntata alla tempia. Ma tant’è: provvedimenti imposti dall’esterno e palesemente iniqui non sarebbero socialmente accettabili. È quanto sta accadendo in Grecia, dove misure inizialmente maggioritarie sono oggi appoggiate da meno di un quarto della popolazione proprio perché non hanno sin qui saputo ridurre l’evasione fiscale, i privilegi di pochi e la corruzione.
Secondo: bisognerà  aumentare il contributo offerto all’aggiustamento dai tagli di spesa, rispetto a quello delle tasse perché, se ben congegnati, i tagli di spesa non avrebbero effetti recessivi di rilievo. Inoltre, questa è una manovra su cui giochiamo la nostra credibilità  nel ridurre il debito pubblico. Conta come miglioriamo i saldi e non solo se ci riusciamo. La cosa che tutti i governi succedutisi da quando siamo entrati nell’Euro non sono stati capaci di fare è tagliare la spesa corrente in modo permanente. Questo è dunque il banco di prova. Al tempo stesso la storia ci insegna che sono soprattutto gli aggiustamenti basati sui tagli della spesa quelli che hanno creato tensioni sociali. Una recente ricerca sugli episodi di “social unrest” in Europa dal 1919 al 2009 (www.voxeu.com) documenta come le manifestazioni, gli scioperi generali e le rivolte di piazza siano state molto più frequenti in presenza di tagli alla spesa pubblica che con inasprimenti fiscali della stessa entità  o addirittura superiori.
Terzo: come verrà  documentato in un convegno della Fondazione Debenedetti il prossimo 10 settembre a Palermo, le famiglie italiane hanno subito durante la grande recessione una riduzione del reddito disponibile, a differenza di quanto avvenuto in altri paesi dell’area Ocse, anche quelli che hanno subito il calo più forte del reddito nazionale, come Irlanda e Spagna. Questo è un portato dei limiti del nostro sistema di protezione sociale, soprattutto dei buchi vistosi di quella rete di assistenza che la manovra, nella sua versione attuale, vorrebbe ulteriormente depotenziare. In ogni caso, le famiglie italiane hanno già  dato e presumibilmente saranno disposte a nuovi sacrifici solo se li percepiranno come equi. La rivolta contro i privilegi della “casta” dei politici è molto indicativa.
Per essere equi bisogna innanzitutto aggirare i veti incrociati delle rappresentanze di interessi perché sono proprio questi veti all’origine delle falle del nostro sistema di protezione sociale. Ad esempio, impensabile escludere dalla manovra le pensioni, come chiesto dalla Lega e da diversi leader sindacali. Le pensioni contano per quasi la metà  della spesa corrente disponibile (al netto della spesa per interessi sui titoli di stato che, come abbiamo imparato in queste settimane, è una spesa che non possiamo controllare).
Chi oggi chiede che le pensioni siano tenute fuori dalla manovra, propone tagli di beni pubblici come l’istruzione e la sanità  dell’ordine come minimo del 15 per cento. Tagli di questa entità  varati in così poco tempo finirebbero inevitabilmente per compromettere la fornitura di questi servizi, penalizzando i cittadini più deboli, quelli che non possono permettersi di mandare i figli nelle scuole private o rivolgersi a strutture mediche private e non convenzionate. Quindi escludere le pensioni dall’aggiustamento vuol dire rendere la manovra sicuramente iniqua.
Equità  significa anche più attenzione ai patrimoni, alla distribuzione dello stock di ricchezza e non solo dei redditi maturati anno per anno. La patrimoniale straordinaria di cui molti parlano, come tutti i provvedimenti una tantum, non servirebbe affatto a rasserenare gli investitori sulla sostenibilità  del nostro debito e rischia di scatenare una fuga di capitali dal nostro Paese. Ma è giusto tassare di più i patrimoni. Bisogna farlo in modo ordinario, ogni anno e non solo in condizioni di emergenza, rafforzando l’imposizione sugli immobili e inasprendo la tassa di successione al di sopra di una certa soglia, ad esempio valutando i valori delle case lasciate in eredità  ai prezzi di mercato, anziché alle rendite catastali.
I valori patrimoniali possono essere rilevati incrociando le diverse fonti informative già  oggi disponibili (i dati raccolti dall’Agenzia delle entrate, del demanio, del territorio, delle dogane, dal Dipartimento delle finanze, dalla Guardia di finanza, dalle Regioni, etc.) e imponendo almeno a chi ha patrimoni superiori a una certa soglia una rendicontazione annuale degli stessi.
Queste informazioni serviranno anche per contrastare l’evasione fiscale, come suggerito da Angelo Provasoli e Guido Tabellini, confrontando le variazioni intervenute nei patrimoni (ai valori di carico) coi redditi dichiarati all’erario. Le rilevazioni andrebbero compiute su scala famigliare anziché individuale, non solo perché molti patrimoni sono indivisibili nella famiglia, ma anche perché questo aiuterebbe nel rendere più equo il profilo dei tagli alla spesa pubblica.
Nel modulare i tagli è, infatti, importante utilizzare le informazioni sui redditi, i patrimoni e la struttura famigliare delle persone interessate prescindendo invece dalle condizioni categoriche (ad esempio esenzioni per chi appartiene a una certa categoria di lavoratori) che sono state storicamente imposte dalle rappresentanze di interessi. La manovra oggi prevede inasprimenti nelle regole di indicizzazione delle pensioni solo per prestazioni superiori ad un certo importo.
La modulazione di questi tagli non guarda mai ai redditi dei pensionati e neanche al valore complessivo delle prestazioni che ricevono. Il risultato è che persone che cumulano diversi trattamenti (un quarto dei pensionati riceve almeno due pensioni), ciascuna di importo relativamente basso, ma complessivamente in grado di offrire un reddito elevato rischiano di venire esonerate dai tagli, al contrario di chi riceve una sola pensione anche di un solo euro superiore alla soglia. Al di là  di questo esempio, l’allocazione di tutti i trasferimenti sociali di tipo assistenziale dovrebbe uniformarsi a questo principio. Oggi solo il 40 per cento delle pensioni sociali e integrazioni al minimo e il 30 per cento delle pensioni di invalidità  va a persone al di sotto della soglia di povertà . Bisogna perciò evitare assolutamente i tagli lineari, ma ristrutturare, assieme alla manovra, anche la nostra assistenza. Sarà  fondamentale per arginare gli effetti dell’inflazione, generata nel fronteggiare la crisi del debito, sulle famiglie più povere, una delle possibili cause dei riots di Londra.
Infine equità  significa anche procedere con liberalizzazioni a tappeto, senza escludere a priori alcuna categoria. Devastante per l’accettabilità  sociale di questa manovra se la riforma degli ordini professionali, che speriamo di ritrovare nel decreto legge che verrà  varato dopo il Consiglio dei ministri, escludesse gli avvocati, così ben rappresentati (e senza alcuna vergogna) ai posti di comando.


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