Narcoeconomia e geopolitica

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Rimane nell’ombra l’altro versante della barricata: le rotte del traffico, la vitalità  di un business in grado di fronteggiare la repressione, l’innesto dell’economia della droga nel tessuto socioeconomico dei paesi poveri, cosiddetti “produttori”, ma anche dell’Occidente ricco “consumatore”. Soprattutto quest’ultimo aspetto, l’intreccio e la collusione fra economia illegale e legale, è scarsamente conosciuto dall’opinione pubblica. Tra i pochi libri che cercano di coprire questa lacuna è Narconomics, il volume curato da Matteo Tacconi, scritto da Stefania Bizzarri, Cecilia Ferrara e Enza Roberta Petrillo, oltre che dallo stesso Tacconi (appena uscito per Lantana Editore). Gli autori seguono la scia economica e finanziaria di cocaina ed eroina, dalle lontane campagne dove coltivare l’oppio o la coca è parte integrante di una economia di sopravvivenza, fino ai quartieri alti della finanza internazionale. C’è molto da imparare da questa narrazione, come si è detto, e alcune pagine sono particolarmente stimolanti: come quelle che analizzano il ruolo della droga e dell’economia criminale nella disgregazione della ex Jugoslavia. Questo sguardo “oltre le linee nemiche” ci rende scettici circa le magnifiche sorti della war on drugs, naturalmente; più importante, ci restituisce come in uno specchio la dimensione propagandistica dell’informazione ufficiale sulle droghe. Un’informazione “di guerra” per l’appunto: quella in cui si nascondono le verità  scomode mentre i rapporti ufficiali delle agenzie internazionali non esitano a inventare dati rassicuranti a tavolino: basti pensare al millantato declino della produzione di cocaina. Svelare gli inganni è importante, ma viene anche la voglia di capirla meglio questa guerra, di scavare fino a comprenderne la funzione sociale e geopolitica (l’unica che può spiegare la sua sopravvivenza a fronte dell’evidente fallimento del suo obiettivo dichiarato, quello di “ridurre fino ad eliminare” l’offerta di droga). Come spiega l’antropologo Axel Klein nel libro Drugs and the world (Reaktion Books, 2008), alla base della proibizione è la rappresentazione della droga come il «nemico che viene da fuori»: cento anni fa erano l’oppio dei cinesi e la marijuana dei messicani che inducevano alle licenze sessuali, minacciando la moralità  delle donne bianche e i “valori” delle società  puritane; oggi sono la ganja dei neri giamaicani e la coca dei latinos ad insidiare i “paesi consumatori”. Chi cede alla sostanza corruttrice va punito sì, ma sempre meno dei “produttori di morte”. Se non ci fosse questa costruzione sociale, che si alimenta di discriminazione etnica, sarebbe tollerabile la militarizzazione di intere aree dell’America Latina, con migliaia di contadini costretti a sfollare dalle proprie terre avvelenate dai pesticidi antidroga? La war on drugs è un tassello importante nel rapporto conflittuale fra nord e sud del mondo. La sua fine, con ogni probabilità , si consumerà  nell’evoluzione di questo scenario geopolitico globale.


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