Non esistono più porti sicuri, nemmeno vicino a Francoforte

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 Di «intoccabili» non ce ne sono più. L’attacco di panico scoppiato alla borsa di Francoforte l’altroieri – -4% in 15 minuti – è duro da spiegare con motivazioni di corto respiro. I commentatori finanziari ci provano comunque; è il loro mestiere, mantenere «fiducia nei mercati». E quindi ad alcuni sembrano sufficienti i due motivi ufficiali: una voce sul possibile downgrading del debito pubblico tedesco (subito smentita da tutte e tre le agenzie di rating) e un’altra sul possibile divieto delle vendite allo scoperto anche in Germania. Sciocchezze assolute a prima vista, specie la seconda (le vendite naked – senza sottostante – sono già  vietate da quasi un anno). Possibile che la fiducia nella Germania sia così bassa di far succedere un quarantotto in pochi minuti solo per questo?

Evidentemente no. Quel che sta venendo meno è la fiducia nell’esistenza di «porti sicuri» dove parcheggiare in modo fruttifero i capitali svolazzanti per il mondo. I bund tedeschi hanno questa fama, ma la loro tenuta nel tempo – come tutte le cose umane – dipende da molti fattori. Uno dei quali è la classe dirigente (non solo «la politica»), mai come in questo momento litigiosa fino ad assomigliare (alla lontana) a quella di casa nostra. Il presidente della Repubblica che considera di dubbia legalità  l’acquisto di titoli di stato stranieri (italiani, greci, ecc) va direttamente contro Angela Merkel, che ha dato il via libera all’operazione. Così come la Bundesbank che critica il governo con tanto di nota scritta. Sì, va bene, ma la domanda resta: basta questo per destabilizzare il motore d’Europa e dell’euro?
Sembra molto più probabile che si sia fatta strada un’altra consapevolezza: che il modello «post-muro» su cui la Germania riunificata ha costruito il proprio colossale successo sia ora alle corde. In sintesi estrema, possiamo dire che sono in debito d’ossigeno i due assi principali di quella strategia. Sul piano produttivo, quel modello prevedeva di fare dell’industria dei paesi limitrofi (fino al Nord italiano) dei «contoterzisti» della produzione tedesca. Su quello finanziario, si avallava – via Bce – la crescita del debito di alcuni paesi per favorire la capacità  di acquisto delle proprie merci. Un cerchio magico che la crisi dei debiti sovrano sta interrompendo.
È vero che le esportazioni tedesche sono ancora molto forti verso la Cina, la Russia e altre aree del pianeta. Ma anche lì la «crescita» va rallentando, per non correre il rischio di «surriscaldare» l’inflazione. Mentre sul piano finanziario, qualsiasi soluzione per la crisi del debito – ristrutturazione, eurobond, acquisto di titoli, ecc – richiede un impopolare impegno diretto della Germania. È questo che spaventa e divide una classe dirigente – non solo politica – selezionata in un percorso quasi sgombro di ostacoli e improvvisamente al di sotto dei problemi che ha davanti. Quelli che per un ventennio erano stati generosamente delocalizzati in casa altrui.

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LA CANCELLIERA
Un «modello» egemonico durato 20 anni sta venendo meno. La crescita s’è fermata e qualsiasi soluzione della crisi del debito Ue richiede l’impegno diretto di Berlino


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