Pioggia di razzi, tensione tra Israele e Gaza

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GERUSALEMME – Piovono sulla striscia di Gaza le bombe teleguidate dell’aviazione israeliana e, di rimando, piovono sulle città  del Negev al confine con la Striscia i missili Kassam e Grad, raramente accurati, delle milizie palestinesi. Ritorsione, vendetta, ritorsione: il vortice della violenza che sembrava da tempo in disuso si è rimesso in movimento. Ma all’indomani dell’incursione armata nel Sud d’Israele, con il suo pesante numero di vittime (otto israeliani e sette miliziani uccisi), a preoccupare non sono soltanto le fiamme che si alzano nuovamente nel cielo di Gaza, da dove secondo Israele sarebbero partiti gli assalitori, ma soprattutto il rapido consumarsi dei rapporti tra lsraele ed Egitto, fino a non molto tempo fa considerato un vicino tranquillo in una regione di lupi, ed oggi visto come un paese “ostile”.
È una lunga sequenza di raid aerei e di lanci balistici, da una parte all’altra del confine tra Gaza e Israele, la cronaca del giorno dopo. La rappresaglia israeliana è cominciata nella serata di giovedì, appena poche ore dopo l’irruzione armata nel territorio di Eilat. A testimonianza che Israele mantiene a Gaza un’efficace rete d’intelligence, in un solo bombardamento è stato decapitato il vertice militare dei Comitati di Resistenza popolare, a cui i servizi di sicurezza israeliani attribuiscono la sanguinosa operazione lanciata dal Sinai egiziano contro il Sud d’Israele.
I Comitati smentiscono di avere a che fare con la battaglia tra le dune del Negev, ma minacciano vendetta e rivendicano i missili che immediatamente partono contro Ashkelon, Ahdod, Ber Sceva. Nel raid che ha ucciso il capo militare dei Comitati, Awad Kamal al Neirab, muore anche un bambino di 13 anni. Un altro, di due anni, viene ucciso in un altro bombardamento.
Durante l’attacco balistico lanciato da Gaza, per vendetta, la difesa israeliana ha modo di sperimentare ancora, con relativo successo, la Cupola di Ferro, il costoso sistema antimissile che dovrebbe costituire un deterrente non soltanto contro gli ordigni palestinesi, ma anche contro quelli degli Hezbollah libanesi. E tuttavia un missile colpisce un collegio talmudico (Yeshiva), ad Ashdo, provocando alcuni feriti, un altro s’infrange senza esplodere conto una vicina sinagoga. A fare più danno, però è un razzo che cade nella zona industriale, due feriti gravi. Sono almeno 14 i missili lanciati da Gaza fino al tramonto.
Dal confine tra Israele ed Egitto, giunge la notizia che un poliziotto egiziano è stato ucciso in una zona in cui le forze israeliane erano ancora impegnate a dare la caccia alla retroguardia della cellula (da 15 a 20 uomini armati) che ha attaccato il Sud del Negev. La notizia riaccende l’attenzione sulla morte di tre militari (due della Guardia di Frontiera uno dell’esercito) egiziani, caduti la sera prima nel fuoco incrociato, è la versione ufficiale israeliana, tra un elicottero israeliano e i terroristi in fuga. Ma gli egiziani non credono a questa versione. Protestano formalmente con Israele, mentre il Capo di Stato maggiore, Sami Anan, vola al confine per indagare, «sui soldati egiziani uccisi dai tiri israeliani» e viene chiuso il valico commerciale di Al Oga, via diretta d’accesso tra i due paesi.
Il vertice militare israeliano ha fatto sapere che collaborerà  con gli egiziani nell’inchiesta sulla morte dei tre miltiari, ma, a leggere i giornali del giorno dopo, è come se l’attacco al Negev abbia segnato una svolta agli occhi dell’opinione pubblica: con l’Egitto del dopo Mubarak niente sarà  più come prima.
È il vuoto di potere che si è creato al Cairo, quello che allarma gli israeliani. Un vuoto che minaccia di concedere troppo spazio di manovra ai nemici dello Stato ebraico: gruppi armati palestinesi, islamisti intransigenti, seguaci di Al Qaeda, militanti della Jihad, alcuni dei quali hanno già  trovato nel Sinai i loro nuovi santuari.
E il messaggio che si ricava dai giornali è semplice: correre ai ripari, anche con una serie di misure militari, per cercare di bloccare la voragine che s’è aperta nelle fondamenta degli accordi di Camp David, firmati nel 1978 da Sadat e da Begin, i quali hanno garantito che la frontiera del Sinai sia stata per oltre trent’anni una frontiera sicura. Perché l’Egitto del dopo Mubarak, l’Egitto della Giunta militare impegnata soltanto – come ha scritto Ben Caspit su Maariv – a sopravvivere giorno per giorno, senza contraddire la piazza e i suoi umori anti israeliani, non è più il vicino tranquillo, il partner affidabile di una volta. Ma un paese che il liberale Haaretz non ha esitato a definire «ostile».


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