“Noi, in carcere per un mese in Libia” l’incubo di tre contractors italiani

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TRIPOLI – Non saranno soli, i tre giornalisti reduci dal rapimento, quando saliranno sulla nave diretta a Malta, per tornare in Italia il prima possibile, su richiesta espressa della Farnesina. Con loro ci saranno anche tre “contractor”, due ex militari e un collega, sopravvissuti a una brutta avventura in circostanze davvero poco chiare. Sono Luca Boero (42 anni, genovese), Vittorio Carella (42 anni, di Peschiera Borromeo, in provincia di Milano) e Antonio Cataldo (27 anni, originario di Chiusano, nell’avellinese).
I tre giornalisti – Elisabetta Rosaspina e Giuseppe Sarcina del Corriere, Claudio Monici dell’Avvenire – sarebbero ripartiti volentieri ieri, ma la nave che doveva imbarcarli non è arriva nel porto di Tripoli per ragioni di sicurezza. Domenico Quirico della Stampa, invece, preferisce rifare il viaggio via terra, attraverso la Tunisia e non partirà  con la nave, anche perché vuole incontrare prima la famiglia dell’autista ucciso, la cui moglie incinta è arrivata alla fine della gravidanza e ancora non sa della morte di suo marito Mahdi.
Ma già  giovedì circolava voce che il ministero degli Esteri dovesse curare la partenza di cittadini italiani in condizioni “delicate”: ieri mattina si è scoperto che la voce riguardava i tre contractor. Il loro racconto ha parecchie zone d’ombra e lascia spazio ai dubbi. I tre dicono di essere stati “rapiti” un mese fa dalle truppe fedeli a Gheddafi in territorio tunisino. Erano stati invitati in Tunisia come “esperti di sicurezza” per curare, dice Vittorio Carella, «la protezione di proprietà » di persone non ben identificate. All’inizio dei contatti queste proprietà  sarebbero state solo in Italia, poi il committente li avrebbe invitati nell’isola tunisina di Djerba, per accordarsi su un servizio da svolgere proprio da queste parti. Arrivati il 23 luglio all’appuntamento con il committente a Ben Guerdane – poco lontano dal confine libico – i tre sarebbero stati invitati a salire in macchina, portati oltre confine, poi fatti scendere a forza e caricati su fuoristrada. Da lì sarebbe nato un mese d’incubo: prima una decina di giorni in un centro di detenzione della polizia politica libica, con percosse e interrogatori urlati in arabo, poi la detenzione in un carcere “normale”, da cui i tre sarebbero riusciti a scappare solo quando i ribelli lo hanno preso d’assalto. In breve, un mese nelle galere libiche trattati come spie.


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