Sfida a Obama

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 NEW YORK. «Padre nostro che sei nei cieli, i mercati finanziari hanno paura. Gesù Cristo illumina i nostri leader che sono immersi nelle tenebre». Rick Perry è su un palco in mezzo allo stadio di Houston, Texas. Lo circondano 30mila fedeli, cristiani evangelici, nella “preghiera per salvare l’America”. Non c’è bisogno che chiarisca da chi e da cosa la nazione ha bisogno di essere salvata: dall’Armageddon, dall’Anticristo che sta alla Casa Bianca.
Deve essere salvata dall’alieno, il nero venuto a imporre il socialismo nella patria della libertà . La scena avviene sabato scorso. In quelle stesse ore la Casa Bianca è sotto assedio per il downgrading di Standard&Poor’s, il presidente consulta il suo segretario al Tesoro in vista della riapertura dei mercati; e i mass media americani intuiscono che la seconda notizia più importante dopo l’Apocalisse finanziaria è quel meeting religioso nel Texas. Tutti hanno capito a cosa prelude. Perry si appresta a lanciarsi nella corsa alla Casa Bianca, aggiungendo il suo nome alla schiera dei repubblicani in lizza per la nomination del loro partito. Anche se l’annuncio ufficiale di Perry può aspettare qualche giorno, la certezza che scenderà  in campo sta già  provocando un terremoto tra i repubblicani.
Il governatore del Texas, 61 anni, può portar via consensi alla favorita del Tea Party, Michele Bachmann. Il primo test sarà  domani con un dibattito organizzato da Fox News, la rete televisiva di Rupert Murdoch così radicata a destra da poter svolgere un ruolo di arbitro. Perry domani non ci sarà  ancora negli studi della Fox, così come non sarà  ufficialmente in gara sabato in un “sondaggio-ombra” organizzato nell’Iowa (lo stesso Stato che aprirà  il giro delle primarie il 6 febbraio 2012). Però si è già  attivato un comitato “Americans for Perry” che invita gli elettori repubblicani dello Iowa a mettere il suo nome nel sondaggio di sabato.
Il texano che arringa le folle come un profeta, l’uomo della Provvidenza, potrebbe essere baciato dalla fortuna come in altri tornanti della sua sconcertante carriera politica. La gara tra i repubblicani ha avuto un vero “elettroshock” negli ultimi dieci giorni: prima il braccio di ferro tra Obama e il Congresso sul tetto del debito con il rischio apparente di un default degli Stati Uniti; poi l’inaudito downgrading inflitto da Standard & Poor’s; infine il lunedì nero dove Wall Street ha perso il 6% per il timore della recessione. L’impatto può essere fatale per il presidente. Ieri il primo sondaggio a caldo su Usa Today ha rivelato che il 51% degli americani vorrebbe mandare via Obama. Non importa se la crisi attuale è l’eredità  di George Bush (due guerre, disastrosi sgravi fiscali ai ricchi, il crac della finanza e la recessione del 2008), chi occupa la Casa Bianca sarà  chiamato a rispondere dello stato dell’economia nel novembre 2012. Ma c’è un pezzo di classe politica che subisce ancor più di Obama l’onda d’urto della sfiducia: è il Congresso. Solo il 24% degli elettori confermerebbe i parlamentari al loro posto. Questi due dati sull’opinione pubblica sono stati “digeriti” dagli sfidanti repubblicani.
Prima conseguenza: bisogna mettere tutta la crisi economica sulle spalle di Obama. «Questo downgrading è responsabilità  del presidente», tuona Mitt Romney in testa ai candidati repubblicani nelle classifiche di popolarità  (24%). Subito dietro di lui, però, è già  balzato al secondo posto il quasi-candidato Perry. A conferma che conviene arrivare da lontano, non essere assimilati alla “casta” di Washington tanto vituperata dagli elettori. Perry non è affatto un neofita, in realtà . E il suo pedigree repubblicano contiene un peccato originale: fino al 1988 è democratico, capo dello staff elettorale di Al Gore nelle primarie del Texas. In quanto ai legami con l’establishment, Perry si fa le ossa come vice-governatore di un certo George W. Bush, ed è solo l’elezione di quest’ultimo alla Casa Bianca nel 2000 che lo catapulta sulla poltrona di governatore. Da allora però la sua performance è impeccabile per la destra più intransigente. Nel Texas Perry taglia brutalmente i fondi alla scuola e alla sanità . Fedele a un’ideologia anti-Stato, fa notizia per la sua opposizione al divieto di guidare inviando sms: «Interferenza inaccettabile nella vita privata». Fa perfino campagna per la secessione del Texas dagli Stati Uniti. Esclude di sospendere la pena di morte perfino per i malati mentali.
Nella gara per accattivarsi i favori della destra più estrema, Perry ha come rivale numero uno Michele Bachmann, fino a ieri l’eroina incontrastata del Tea Party. 55 anni, deputata del Minnesota, legata alle chiese del fondamentalismo, la Bachmann è telegenica almeno quanto Sarah Palin ed è riuscita a eclissare la ex-star della destra populista. Le sue uscite più celebri sono una sapiente miscela di religiosità  reazionaria, razzismo mascherato, fanatismo anti-tasse. Definisce Obama «anti-americano». Si paragona a Nostradamus, per la capacità  profetica. Ha evocato «singolari coincidenze» dovute alla volontà  divina, per il fatto che «le due epidemie di febbre suina in America sono accadute quando c’erano due democratici alla Casa Bianca, Jimmy Carter e Obama». Non è vero, ma la Bachmann ha in comune con la Palin la faccia tosta imperturbabile con cui sorvola sui propri strafalcioni storici. La cultura moderna è un’avversaria da abbattere: Michele vuole che a scuola si insegni il creazionismo invece della teoria dell’evoluzione. Il suo exploit più recente è legato alla crisi del debito. La Bachmann è uno dei nove parlamentari che per obbedienza al Tea Party si sono dissociati dalla maggioranza del partito repubblicano, e hanno disertato l’accordo bipartisan con Obama. Fosse stato per lei, dunque, il 2 agosto il Tesoro degli Stati Uniti poteva andare tecnicamente in default, cessazione dei pagamenti. «Alzare il tetto del debito – tuona – vuol dire carta bianca ai politici per continuare a spendere». Ha una storia personale avvincente – cinque figli suoi e 23 figlie adottive – che ne fa una sorta di santa per gli integralisti cristiani. «Una perfetta incompetente», la bolla l’ex governatore del Minnesota Tim Pawlenty, anche lui candidato, che ricorda che da parlamentare «ha un bilancio legislativo inesistente».
Logica vorrebbe che alla fine il partito repubblicano non si affidi agli estremisti del Tea Party bensì a un candidato espresso dall’establishment conservatore. È andata quasi sempre così, con l’eccezione importante di Ronald Reagan. Di certo per la sfida finale contro Obama i meglio piazzati sono “i gemelli-coltelli mormoni”. Romney e Jon Huntsman, i due sfidanti più moderati e quindi in grado di corteggiare l’elettorato indeciso del centro, appartengono a due clan familiari egualmente opulenti (con due padri industriali), hanno radici identiche che risalgono alle origini della Chiesa mormone dello Utah. La loro linea centrista è proprio l’handicap da superare nelle primarie repubblicane, dove vota compatta l’ala più radicale del partito. Il 51enne Huntsman deve farsi perdonare il fatto di avere addirittura lavorato per Obama: fino a tre mesi fa era il suo ambasciatore in Cina. Tuttora parla con rispetto del presidente: un errore fatale in questa polarizzazione politica? Il 64enne Romney ha dalla sua la forza del denaro: la sua ricchezza personale gli dà  un vantaggio su tutti, in una campagna che sfonderà  nuovi record (Obama veleggia verso il miliardo di dollari nella raccolta fondi). Ha però due scheletri nell’armadio. Il primo può valergli attacchi micidiali da Perry e Bachmann: quand’era governatore del Massachussetts, uno Stato notoriamente liberal, Romney firmò una riforma sanitaria che assomiglia in tutto e per tutto a quella di Obama. «Socialismo sanitario, l’Unione sovietica», l’hanno bollata quelli del Tea Party. Il secondo peccato di Romney invece gli costerebbe caro in uno scontro con Obama. Nella sua immagine di «businessman efficiente che vuole salvare l’economia americana dal disastro» Romney sorvola su un piccolo particolare. La sua ricchezza viene dall’attività  di “avvoltoio finanziario” nel gruppo Bain, specializzato nello smembrare aziende, licenziare i dipendenti, per rivenderle con profitto. Proprio uno di quei pirati della finanza che hanno ridotto l’America in questo stato.


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