Tokyo fuori dal nucleare

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 «Ho fatto tutto il possibile per cambiare questo paese, ma non c’erano più le condizioni per andare avanti. Ho preferito trattare la mia resa, e penso di esserci riuscito». Raggiunto al telefono, per raccoglierne, da vecchio amico, lo sfogo, più che una vera e propria intervista, Naoto Kan, che oggi annuncerà  formalmente le sue dimissioni e martedì 30 agosto verrà  sostituito dal sesto premier in cinque anni, sembra tutt’altro che depresso. Anzi. La sua uscita di scena («ma resto in politica, sto pensando ad un nuovo partito»), da tempo annunciata e caparbiamente negoziata con «amici» (i dirigenti del suo partito, che ne hanno sempre temuto l’eccessiva autonomia ) e nemici (l’opposizione, che da sola non avrebbe mai potuto farlo cadere) sembra più che onorevole.

Dopo l’approvazione avvenuta martedì scorso alla Camera bassa, oggi anche la Camera alta è destinata ad approvare il «pacchetto verde» da lui proposto. Si tratta di tre leggi molto importanti, e di una serie di decreti collegati (compresi quelli che prevedono l’immediata copertura finanziaria) che – salvo non improbabili piroette future da parte di futuri governi (ma dovranno passare comunque almeno tre anni prima di poter rimettere mano alla materia) dovrebbero e potrebbero cambiare il volto «energetico» del Giappone. Nessuno, nemmeno l’oramai ex premier lo vuole chiamare l’addio al nucleare, ma certamente ci va molto vicino.
Non solo viene confermato il congelamento del vecchio piano energetico, che prevedeva la costruzione di 20 nuovi reattori e l’aumento della percentuale nucleare del fabbisogno dall’attuale 29% al 50%. Alla progressiva uscita dal nucleare si contrappone una grande spinta nei confronti delle rinnovabili. Aprendone, politicamente, e finanziarimante, il mercato. Dal prossimo luglio (gli undici mesi, molto delicati e pericolosi, saranno necessari per predisporre strutture ed istituire i nuovi enti di vigilanza e controllo, compresa la nuova authority governativa che dovrà  decidere i prezzi ai quali le nuove energie dovranno essere acquistate dalla compagnie elettriche) quello che fino ad oggi era uno dei più efficaci e redditizi monopoli verrà  di fatto scardinato. Le dieci utilities (le società  elettriche interregionali che si spartiscono l’enorme mercato dell’energia, dalla progettazione alla produzione e alla distribuzione), nove delle quali hanno anche la licenza per il nucleare (l’unica a non averla, guarda caso, è quella che opera ad Okinawa, dove è di stanza la maggior parte delle truppe Usa) saranno d’ora in poi costrette, con regole molto più incisive di quelle previste, ad esempio, in Germania, ad acquistare qualsiasi tipo di energia «rinnovabile e alternativa» qualsivoglia prodotta.
Una bella legge, che potrebbe proiettare il Giappone verso una quota di rinnovabile del 20% entro il 2030 (oggi siamo ad appena il 4%), rendendolo uno dei paesi più «verdi» e stimolandone, al tempo stesso la ripresa e la crescita economica. Tant’è che mentre la politica sta dando il peggio di sé – con vecchi e nuovi «frondisti» che in vista delle elezioni interne di lunedì prossimo cercano di accreditarsi presso padroni (il ricchissimo ex premier Hatoyama, politicamente estinto ma tutt’ora considerato il «proprietario» del partito) e padrini (l’ex segretario Ichiro Ozawa, rinviato a giudizio per una questione di finanziamenti illeciti, sospeso dal partito ma tutt’ora in grado di fare la «differenza» con il suo pacchetto di 140 voti sicuri) il mondo imprenditoriale, compresi gruppi come Mitsubishi, Mitsui, Sony e Sharp non vedono l’ora di gettarsi su questo nuovo mercato.
E questo nonostante i dubbi e le perplessità  di alcuni quotidiani, soprattutto del Nikkei e dello Yomiuri (i più vicini alla lobby nucleare) che denunciano il nuovo piano energetico come velleitario, sostenendo (non senza ragione) che le utilities alla fine scaricheranno i costi aggiuntivi sui consumatori, aziende «ad alto consumo» comprese. Bloccando di fatto la produzione e dunque la crescita.
Di tutt’altro avviso Masayoshi Son, il giovane Ceo della Softbank, uscito polemicamente dalla potente Confindustria locale che ha già  annunciato la sua «entrata» nel settore. Una sua nuova società , appena costituita e alla quale ha già  aderito la Daiwa Securities, ha annunciato che costruirà  10 nuove centrali solari e geotermiche. A Son i soldi non mancano e nemmeno la popolarità . Secondo un recente sondaggio è l’imprenditore più «simpatico» del Giappone, quello di cui i giapponesi si fidano di più e che vedrebbero volentieri in politica.
Ma in Giappone è ancora troppo presto – e non si sa se, nella fattispecie, sia un bene o un male – per la «discesa in campo» di un «esterno». Il Palazzo, che maldigeriva l’anomalia Kan (l’unico premier che proveniva dalla società  civile, dal «movimento» e non allevato «in vitro», tra i corridoi di Nagatacho, il quartiere della politica di Tokyo) sta lavorando alla restaurazione e lunedì prossimo, in occasione delle elezioni interne al partito democratico (il cui nuovo presidente diverrà  automaticamente il nuovo primo ninistro) produrrà  l’ennesimo leader «per conto terzi». A spuntarla sarà  molto probabilmente infatti Seiji Maehara, 49 anni, soprannominato il «Blair giapponese». Quello che nel 2004, quando divenne per la prima volta segretario del partito, si dimise per aver pasticciato con una mail privata, e che l’anno scorso, quando era ministro degli esteri, ha colto la prima occasione (l’aver accettato, inconsapevolmente, un «contributo economico» di 500 euro da una «straniera», una ristoratrice di origine coreana di 70 anni nata e sempre vissuta in Giappone) per «sganciarsi» da Kan e accreditarsi presso il Pentagono. Di lui dicono solo che non è una cima, e che è facilmente manovrabile. Quello che ci vuole, per un paese che rischiava davvero di cambiare. Lui, per sicurezza, ieri è andato a casa di Ichiro Ozawa, imputato e sospeso dal partito, per chiederne la benedizione. Se l’otterrà , avrà  certamente un prezzo. Che come al solito pagheranno i giapponesi. Meriterebbero di meglio.


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