Un Patrimonio in Caserma

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Il quale, intervistato più di dieci anni fa per il libro del Sole 24ore «Il fisco giusto», consegnò al giornalista Orazio Carabini questa sconcertante testimonianza: «Nessuna amministrazione collabora. In particolare non collabora il ministero della Difesa. I militari non mollano le caserme, anche se sono vuote. C’è una procedura che prevede che se non vengono utilizzate bisogna restituirle al demanio. Ma basta mettere un piantone di guardia per far vedere che è utilizzata e nessuno gliela può togliere». Di più. Luigi Scimia, amministratore delegato della Consap, la società  che era stata incaricata di dismettere le caserme inutilizzate della Difesa, raccontò un giorno che su 302 immobili individuati come vendibili, ben 72 erano stati dichiarati di interesse storico artistico e 34 messi sotto il cappello della legge 1939 che tutela i beni artistici.
Da vent’anni il tormentone della cessione degli immobili pubblici va avanti, senza soluzione di continuità . I censimenti si susseguono, periodicamente vengono compilate liste interminabili, scoppiano inevitabili le guerre fra gli ambientalisti che paventano la vendita del Colosseo e il governo che si affretta a smentire. Il risultato è che ogni tentativo finisce regolarmente con un buco nell’acqua.
A mettere in guardia il precedente governo di Silvio Berlusconi da facili entusiasmi sarebbe bastata la rivelazione di Giacomo Vaciago, ex sindaco di Piacenza che per un biennio aveva guidato, nell’esecutivo di centrosinistra, una commissione per la dismissione dei beni pubblici. «Nel primo anno», disse, «era previsto un incasso di mille miliardi. Ne abbiamo incassati tre». Colpa del ministero della Difesa che remava contro la vendita delle caserme, certo. Ma anche delle resistenze delle altre amministrazioni, degli intoppi burocratici, delle procedure, degli ostacoli tecnici… Più di recente ci si è messa anche la riforma del titolo V della Costituzione voluta dal centrosinistra nel 2001, che ha rafforzato il potere (anche di veto) delle Regioni.
Fatto sta che nessuno riuscì a monetizzare nemmeno una piccolissima parte di quegli 805 miliardi di euro stimati da Sabino Cassese alla fine degli anni Novanta come valore del patrimonio statale. Questo, tuttavia, non scoraggiò il centrodestra. E nel 2001, appena insediata, la nuova maggioranza targata Berlusconi-Fini-Bossi-Casini decise di avviare la più grande vendita del patrimonio pubblico che si ricordi. La prima operazione fu la cessione in blocco degli immobili degli enti previdenziali. Sfortunata l’idea, sfortunata anche la sigla delle società  veicolo che vennero costituite per procedere alla cosiddette cartolarizzazioni: Scip. Con un paradosso. Cioè che si trattava di società  di proprietà  del Tesoro italiano, ma di diritto olandese. Perché olandese? Per dribblare la burocrazia italiana. Avete capito bene: la burocrazia italiana. Lo Stato che dribbla se stesso. E questo già  la diceva lunga.
Per quanto riguarda i risultati, poi, ci si può rifare alle numerose esternazioni della Corte dei conti. Quella del 2004, per esempio: «Nessun reale meccanismo di monitoraggio, in itinere e a consuntivo, dei risultati delle operazioni di cartolarizzazione è stato predisposto per valutazioni d’interesse della collettività . L’unico monitoraggio è quello svolto dai consulenti esterni per conto della società  veicolo nell’interesse dei soli investitori: riguarda gli scostamenti delle vendite degli immobili rispetto a quelle previste dai business plan». E poi quell’altra relazione sfornata dai magistrati contabili, senza alcuna pietà , nel 2006: «Le cartolarizzazioni effettuate dallo Stato, avrebbero potuto essere strumenti di gestione economica dei beni pubblici e, invece, sono servite unicamente a far rapidamente cassa». Ma neppure tanta, di «cassa», se sono vere le stime secondo cui a fronte di un valore di mercato degli immobili «cartolarizzati» di 16,2 miliardi, se ne sarebbero introitati appena 8,8. Con una perdita, tenendo presente il valore dei beni non collocati, di 5,2 miliardi di euro.
Per non dire dei costi dell’operazione: ammontati, per la sola Scip 2, la seconda delle società  veicolo, a 1,8 miliardi di euro. E senza considerare le polemiche suscitate dalle vendite degli immobili cosiddetti «di pregio» e dalle immancabili speculazioni.
Ricordando quella stagione, è poi impossibile non rievocare l’incredibile flop di Patrimonio spa. Era un’altra società  costituita dal Tesoro con l’obiettivo di valorizzare le proprietà  immobiliari dello Stato. Al suo timone venne collocato Massimo Ponzellini, facoltoso imprenditore già  considerato molto vicino al leader ulivista Romano Prodi, in seguito finito nelle grazie leghiste, affiancato dall’ex banchiere della Comit Luigi Fausti. Il destino era però segnato fin dall’inizio. Dopo cinque anni, non avendo combinato praticamente nulla, tranne stilare l’ennesimo improbabile elenco di beni da alienare (fra cui qualche decina di carceri) e pagare lo stipendio a un manipolo di dipendenti, Patrimonio venne messa in liquidazione senza troppa pubblicità .
Del resto, la sua stessa esistenza era un controsenso, per uno Stato che anziché vendere continua a gonfiare il demanio. Nel portafoglio del Tesoro c’è perfino una società , erede dell’Iri, che si chiama Fintecna immobiliare. Dentro la sua pancia si trovano decine e decine di immobili, di provenienze fra le più curiose. Arrivati dai fallimenti, dalle liquidazioni, quando non dagli enti locali. Beni spesso incedibili, come quell’ex ospedale di Genova il cui trasferimento oneroso a Sviluppo Italia turismo, controllata di Invitalia, la ex Sviluppo Italia, è stato sventato in extremis. Perché mentre si alimentano le chiacchiere agostane con nuove suggestioni di beni pubblici messi all’asta per tappare i buchi di bilancio, gli unici concreti passaggi di proprietà  avvengono fra lo Stato e lo Stato. Sviluppo Italia turismo, appunto, ha recentemente assorbito una serie di stabili di Fintecna immobiliare con l’obiettivo della loro «valorizzazione turistica». Nel pacchetto c’è, per esempio, un immobile storico a via Giulia, a Roma, che dovrebbe essere trasformato in un piccolo albergo di lusso. E altre cosucce sparse qua e là  in giro per il Paese.
Erano beni che la società  del Tesoro aveva sul groppone e dei quali faticava a liberarsi? Come si dice: a pensare male…. L’unica cosa certa, indipendentemente dalle intenzioni, dalle necessità  dei bilanci e da tutto il resto, è che lo Stato è tornato così a essere il più grande proprietario di strutture turistiche: villaggi turistici, hotel, resort. Come ai tempi della mitica Cassa del Mezzogiorno. Altro che vendere…


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