ANGOLA. Piccola protesta, grandi arresti: democrazia relativa

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Ma è un momento delicato. Le «primavere arabe» avanzano minacciose, soprattutto nei paesi ricchi di petrolio, e diversi regimi temono basti una scintilla per fare crollare tutto. Al momento dos Santos ha le spalle coperte: tra i suoi migliori alleati ci sono i cinesi, improbabile un intervento occidentale a sostegno di una transizione democratica.
Cinismo? Quel che è certo è che il regime dell’Mpla, Movimento Popular pela Libertaà§à£o da Angola, non è, al di là  delle apparenze formali, tra i più liberali al mondo, soprattutto dopo la riforma costituzionale del 2010 che ha ulteriormente accentrato i poteri intorno alla figura del capo dello stato. Ufficialmente l’Angola è considerato un paese semi-democratico, multipartitico con una relativa libertà  di stampa. Di fatto però l’unica opposizione tollerata è quella che non crea grattacapi.
Eppure quando ragioni etiche, come la richiesta di maggiori libertà  e diritti sociali, si associano a ragioni geostrategiche, i sospetti sulla sincerità  delle intenzioni dei protagonisti si moltiplicano. Per il momento l’opinione pubblica internazionale sembra benevola nei confronti della ex-colonia portoghese, ma gli umori potrebbero cambiare. Si capisce che dopo aver visto quanto successo in Libia, dos Santos non si senta molto rassicurato dai rapporti che legano l’ambasciata americana ai vari partiti dell’opposizione extraparlamentare, quelli cioè meno addomesticati. L’analisi della società  fa parte delle normali attività  della diplomazia – ma l’attivismo del network informativo Voice of America (Voz da America) è un segnale che ci sia qualche cosa di più di un semplice interessamento da parte di Washington.
L’ondata di «democratizzazioni» iniziata con le rivoluzioni arancioni – quella ucraina di qualche anno fa, per intenderci, passata poi per l’Iraq e l’Afghanistan e approdata in Libia – accentua il lato paranoico di tutti i dittatori, ancora meno disponibili a fare qualsivoglia concessione sul piano delle libertà . In Angola, paese stremato da una lunghissima guerra civile, non pochi si espongono, in un modo o nell’altro, per contrastare il potere debordante dell’Mpla: ma al momento non esiste nulla che possa impensierire davvero dos Santos. I problemi però potrebbero arrivare da fuori: si sa, se di mezzo ci sono petrolio, diamanti e tanti soldi la questione si fa molto complicata. Non sono solo gli americani a essere coinvolti in Angola, ma anche i francesi. Vale la pena ricordare lo scandalo della vendita di una partita di armi quando l’Angola era sotto embargo. L’affaire Angolagate ha coinvolto le più alte sfere francesi tra cui Jean-Christophe Mitterrand, figlio dell’ex presidente Franà§ois, poi l’ex ministro degli interni Charles Pasqua e Jaques Attali. La conclusione del processo d’appello dello scorso 24 aprile ha chiuso la vicenda con molte assoluzioni per molti (non tutti) dei protagonisti dell’affaire, ma non ha fugato i molti dubbi sulla politica estera francese – l’intensa attività  neo-coloniale francese, meglio nota come Franà§afrique, a cui l’affaire Angolagate va ricondotto.
La manifestazione di Luanda, autorizzata peraltro dal governo, non avrà  probabilmente grandi strascichi, tranne per i manifestanti. Ma è anche vero che gli equilibri possono cambiare in modo repentino e inaspettato, così come è successo in Libia. L’Angola è un boccone troppo appetitoso per essere lasciato tranquillo.
Intanto, dos Santos, tanto giusto per essere prudenti, ha annunciato che alle elezioni del prossimo anno si farà  da parte, mandando avanti il potentissimo presidente della Sonangol, società  di gestione del petrolio angolano, Manuel Vicente, anche lui membro dell’Mpla.


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