Dato ufficiale, la crisi è qui

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 Bentornato, panico! Stavolta accusare la speculazione – presunta «infiltrata nei mercati», invece che la loro sostanza autentica – sarà  difficile. Ieri le borse mondiali hanno vissuto l’ennesima giornata di vendite generalizzate sulla base di ben tre notizie negative, tutte di portata sistemica. Vediamole in ordine cronologico.

In mattinata veniva reso noto uno studio di Goldman Sachs riservato ai suoi clienti. Vi si fanno previsioni molto pessimistiche per la tenuta dell’eurozona, calcolando in 1.000 miliardi di dollari le necessità  di ricapitalizzazione delle principali banche continentali, mentre per il Fmi sono «solo» 200. Per non lasciare spazio ai sogni, Alan Brazil – l’analista che ha guidato lo studio – ha stroncato le possibilità  di ripresa dell’economia Usa a causa della debolezza delle piccole e medie imprese. Visto che c’era, ha battezzato per finita la corsa cinese al ritmo del 10% annuo.
In fondo Goldman Sachs è famosa per i suoi profittevoli «doppi giochi» (prima e durante la crisi dei subprime speculava al ribasso sull’immobiliare e contemporaneamente consigliava ai clienti di investire nel mattone…). Il rapporto forse non sarebbe stato preso così male se Joseph Ackerman – a.d. di Deutsche Bank e presidente dell’associazione bancaria mondiale – non avesse confermato rischi di liquidità  a lungo termine per le banche, che ora sembrano tornate nella situazione del 2008: non si prestano più denaro fra loro con tanta facilità . Lo spread relativo ai prestiti interbancari è salito a 0,64%, come nel pieno della crisi 2009.
Gli investitori hanno fatto due più due: sta per scatenarsi un nuovo credit crunch (blocco del credito) proprio mentre il sistema finanziario stava «riscoprendo» la necessità  di poter far conto su un’economia reale solida. Ma se le banche non si prestano reciprocamente denaro, ancor meno si fideranno degli «imprenditori reali» che si rivolgono loro per avere «liquidità ».
La seconda brutta notizia veniva da Atene, dove la «troika» (funzionari Bce, Fmi e Ue) sospendeva improvvisamente la «missione» di verifica sullo stato dei conti greci. L’obiettivo di deficit per il 2011 è fissato al 7,5% del Pil. Nonostante tutti gli sforzi, però, proprio la frenata della pur modesta «crescita» europea rende probabilmente impossibile questo risultato. Una riprova sta nelle dimissioni della responsabile dell’Ufficio Bilancio del parlamento greco, Stella Sava Balfusia, che aveva firmato un rapporto in cui si definiva la dinamica del debito statale «fuori controllo». A complicare le cose c’è anche la bizzarria finlandese, che ha preteso «garanzie supplementari» individuali per poter dare l’ok al «salvataggio europeo». Scatenando così una gara a chiedere altrettanto da parte di altri paesi dell’Unione, che solo l’intervento della Bce è riuscito a non far esplodere. Ma non a far rientrare.
Il blocco improvviso della «missione» arrivava in divergente contemporaneità  col sospirato «via libera» per la terza tranche di aiuti a Portogallo e Irlanda, i cui sforzi di rigore hanno dimostrato «di saper rispettare importanti pietre miliari del programma concordato». Dublino potrà  così ricevere 7,5 miliardi di euro e Lisbona altri 11,5. Restituirli, naturalmente, non sarà  facile.
Né deve aver tranquillizzato l’improvvisa distonia tra il ministro delle finanze tedesco – Wolfgang Schaeuble – e la cancelliera Angela Merkel. Il primo, durante un incontro con i gruppi parlamentari Cdu/Csu, si è espresso a favore di ampie riforme in Europa come risposta alla crisi del debito: una più ampia delega di poteri al «centro» in materia di politica economica e finanziaria, «anche se siamo consapevoli di quanto sia difficile cambiare gli attuali trattati» dell’Unione. Cadeva dalle nuvole la cancelliera, secondo cui, invece, «al momento si tratta di agire con gli strumenti che abbiamo». Atto dovuto per rassicurare i partner europei, indubbiamente, ma anche un segnale che «gli strumenti attuali» non reggono la prova imposta dalla crisi.
La botta finale arrivava dagli Usa, che nel mese di agosto hanno prodotto una «crescita zero» dell’occupazione, invece dei 70.000 nuovi posti predetti dagli analisti. Peggio: venivano rivisti al ribasso anche i dati sugli occupati in giugno e luglio. È il risultato della combinazione tra licenziamenti nel pubblico impiego per «risanare i bilanci statali» e anemica richiesta di forza lavoro nel settore privato.
Per le particolari caratteristiche Usa, se non c’è crescita dei posti di lavoro c’è di fatto recessione. Ma se accade di nuovo dopo solo due anni si chiama double dip, qualcosa che era accaduto solo bella «crisi del ’29». Con il primo dip si sono costretti gli stati a dissanguarsi, gonfiando il debito pubblico. Chi potrà  mettere riparo agli effetti del secondo? Qui si chiudeva il cerchio aperto da Goldman Sachs la mattina. Le borse europee finivano con perdite oscillanti tra il 3,5 (Francoforte) e il 3,9% (Milano). Wall Street perdeva subito il 2% e lì intorno restava per tutto il giorno. Il prezzo del petrolio è sceso (-2,9%, a 86,3 dollari), mentre l’oro ha ripreso a correre (+2,5%, a 1.874 dollari l’oncia). Del resto, se c’è recessione, si consuma meno energia; e se la crisi dura, è meglio avere da parte oro, piuttosto che carta straccia. Sembrava postmoderno, ma è tornato alle origini.


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