Donne, ricatti e sospetti L’intreccio delle tre inchieste

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ROMA — Ora che l’inchiesta della Procura di Bari sulla prostituzione ha svelato il contenuto delle conversazioni segrete tra Gianpaolo Tarantini e Silvio Berlusconi (ma non solo quelle), anche l’indagine della Procura di Napoli sulla presunta estorsione al capo del governo risulta più chiara. O almeno sono più chiari, quasi evidenti, i presupposti del ricatto contestato al reclutatore di ragazze Tarantini e a Valter Lavitola, il giornalista-imprenditore che ne gestiva le mosse facendo da mediatore tra lui e il premier.
Le ipotesi dei pubblici ministeri napoletani nascono da conversazioni tra Tarantini e Lavitola come quella registrata il 2 luglio scorso, di questo tenore: «Là  c’è un problema grosso… Il capo stava cacato nelle mutande… Dice che… non se la può più tenere questa cosa finale, la deve per forza mandare… e se va… Dice che sono terrificanti…».
Quella «cosa finale» che «il capo» (probabilmente il procuratore di Bari) non si poteva più tenere dovendola notificare agli indagati, è l’informativa conclusiva della Guardia di finanza: 269 pagine piene di telefonate tra Tarantini e Berlusconi, e tra Tarantini e altre persone, sullo sfondo sempre Berlusconi, le sue abitudini sessuali e l’uso che altri ne facevano per ricavarne affari e potere. Un quadro di relazioni carico di conseguenze di pubblico interesse, se solo si pensa a come il premier creò il contatto tra Tarantini e il capo della Protezione civile Bertolaso.
Logico dunque che il contenuto di quell’informativa, con tutte le trascrizioni allegate, destasse non poca preoccupazione nell’entourage del presidente del Consiglio. Preoccupato dal «caso Tarantini» fin dall’estate di due anni fa, quando Patrizia D’Addario svelò la notte trascorsa a palazzo Grazioli organizzata e pagata dall’imprenditore barese. Da allora — come emerge proprio dall’indagine napoletana — Tarantini fu messo «sotto tutela» dall’apparato legale di Berlusconi. A cominciare dalla nomina del primo avvocato, collega di studio di Niccolò Ghedini, difensore del premier. Che nel giugno 2009, dopo le rivelazioni della D’Addario, si agitò non poco a sentire Tarantini: «Gianpaolo dice di temere che Niccolò gli crei il panico come fece due anni fa», si legge nella trascrizione di un’intercettazione del 5 luglio scorso tra l’ex imprenditore e Lavitola, sempre a proposito dei timori legati al contenuto dell’informativa della Finanza.
Ora è di pubblico dominio, e quello che non lo è si può immaginare. Come nella telefonata del 5 ottobre 2008, quando il premier dice a Tarantini che la sera prima era arrivato a mezzanotte da Parigi e stava «un po’ carico perché…». Tarantini comincia a ridere, e Berlusconi prosegue con otto righe di considerazioni coperte dagli inquirenti perché inutilmente offensive, tra le continue risate del suo interlocutore. A Parigi, il premier aveva appena partecipato a un summit con la cancelliera tedesca Angela Merkel, il presidente francese Sarkozy e il primo ministro inglese Brown.
Quella conversazione dai contenuti forse imbarazzanti sul piano dei rapporti internazionali dell’Italia è rimasta segreta, ma esiste, e quando Tarantini esternava le sue preoccupazioni a Lavitola non sapeva della censura preventiva. Su questi timori s’innesta, secondo i magistrati napoletani, il ricatto a Berlusconi. Ordito soprattutto da Lavitola. Il quale, all’ex imprenditore che gli descrive allarmato lo scontro interno alla Procura di Bari tra l’ex pm Scelsi e il procuratore Laudati che «pare abbia rallentato le indagini sulla prostituzione nei confronti di Berlusconi», risponde tranquillo: «E questo è buono…. Invece de fa ‘na festa…». Nella ricostruzione dell’accusa, intravedeva l’occasione per aumentare il suo peso nella «gestione» di Tarantini e alzare le richieste economiche al premier.
In questa ottica, le frizioni tra i magistrati baresi diventano altro presupposto e un possibile riscontro al ricatto ipotizzato. Il 5 luglio Tarantini confidava a Lavitola: «Quello a Nicola gli ha messo l’ansia… ha detto che è catastrofica… che il suo ruolo è fallito… perché lui era convinto, ti ricordi, di archiviarla…». Nicola è l’avvocato Nicola Quaranta, all’epoca difensore di Tarantini, e «quello» dovrebbe essere il procuratore Laudati. Il quale — come denunciato al Csm dall’ex sostituto Scelsi, primo titolare dell’indagine sulla prostituzione collegata a Tarantini e Berlusconi — ordinò alla Finanza di consegnare a lui l’informativa finale anziché a Scelsi. Accadeva a fine giugno, pochi giorni prima del colloquio tra Laudati e l’avvocato Quaranta (che lo riferisce in termini diversi da quelli raccontati da Tarantini) e della susseguente fibrillazione.
Tutto ciò è materia di una terza inchiesta avviata dalla Procura di Lecce, competente per i fatti che coinvolgono i magistrati baresi. Ieri i pm di Lecce e Napoli hanno interrogato i loro colleghi Scelsi e Eugenia Pontassuglia, oggi delegata all’indagine sulle escort, per capire quel che è accaduto nell’ufficio diretto da Laudati.
Del «sistema volto a indurre e favorire la concessione di favori sessuali» orchestrato da Gianpaolo Tarantini e arrivato nelle case del presidente del Consiglio, dunque, si occupano già  tre Procure. Con una quarta, quella di Milano, che procede per prostituzione minorile a carico di Berlusconi in un processo che secondo la stessa difesa del premier è tanto «collegato» da impedire all’imputato milanese di presentarsi a Napoli come testimone. Inoltre, sostengono gli avvocati di Berlusconi, la competenza sull’eventuale estorsione sarebbe non di Napoli ma di Roma: la quinta Procura che potrebbe essere chiamata a valutare i costumi sessuali del capo del governo e i giochi di potere a essi collegati.


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