Facebook e Google «in politica» E aprono alla destra repubblicana

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Google, che per anni ha attributo a Microsoft tentazioni monopoliste e ha accusato Bill Gates di avere «le mani in pasta» a Washington, trasforma la sua sede nella capitale americana in una grande centrale della «persuasione politica», assume al suo servizio ben 18 studi professionali specializzati in attività  lobbistiche (non 18 lobbisti ma 18 imprese del ramo) e apre anch’essa al fronte conservatore: identificata come uno dei pilastri della presidenza di Barack Obama fin dai tempi della campagna elettorale e della partecipazione del suo capo di allora, Eric Schmidt, al «gabinetto della transizione» dopo l’elezione del novembre 2008, l’azienda di Mountain View ora ha cominciato a pompare a piene mani denaro anche a destra.

Finanzia non solo parlamentari e candidati presidenziali repubblicani, ma anche tutto l’arcipelago delle organizzazioni della loro area. E sponsorizza i dibattiti televisivi tra Romney, Rick Perry, la Bachmann e gli altri candidati insieme alla Fox, la rete arciconservatrice di Rupert Murdoch.

Adesso Schmidt (nel frattempo divenuto presidente dopo aver ceduto la poltrona di amministratore delegato al fondatore di Google, Larry Page) dà  soldi a tutti, dall’Associazione dei governatori repubblicani a «think tank» come l’American Enterprise Institute e la Heritage Foundation. E ci tiene a farlo sapere in giro.

L’«età  dell’innocenza» dei geni della Rete, abilissimi a sedurre i giovani e a fare impresa, ma idealisti ingenui in politica, è finita da tempo. Anche quando, quattro anni fa, la Silicon Valley decise di rompere col resto della California clintoniana (nel senso che sosteneva Hillary), per schierarsi per prima col candidato nero alle primarie democratiche, aveva fatto una scelta che guardava anche al futuro tecnologico dell’America. E che teneva conto anche della maggior apertura alla cultura digitale del giovane senatore dell’Illinois.

Ora, sia nel caso di Facebook sia in quello di Google, assistiamo a un passaggio dalla fine dell’ingenuità  all’esibizione di un «pelo sullo stomaco» degno della multinazionale più cinica, del petroliere più spregiudicato. Tutto comprensibile, per carità . Tanto Google (che ha sedi in tutto il mondo e ha imparato a pagare meno tasse giocando sulla sua presenza nei Paesi con trattamento fiscale più favorevole, come l’Irlanda) quanto Facebook, forte di 750 milioni di utenti in tutto il mondo, sono ormai anch’esse delle vere multinazionali. Comprensibile, quindi, che si comportino come i loro simili.

Anche perché la tanto criticata Microsoft è stata da loro studiata come un caso pilota: investita negli anni passati da numerose accuse di violazione delle norme antitrust, ha subito rovesci continui. Fino a quando non ha deciso anch’essa di adeguarsi alle abitudini del «sottobosco» di Washington. Adesso che anche i nuovi protagonisti della Rete hanno crescenti problemi di tipo regolamentare — Google soprattutto per l’accusa di posizione dominante come motore di ricerca, Facebook su vari fronti, a cominciare dal trattamento dei dati personali e dal rispetto della privacy — le società  della Silicon Valley trasferiscono un po’ dei loro cervelli sulle rive del Potomac. Più precisamente sulla K Street, il boulevard dei lobbisti. Suscitando la reazione sarcastica del senatore democratico Pat Leahy, presidente della commissione che indaga sulle possibili violazioni delle norme «antitrust» da parte di Google. Davanti alla notizia dell’assunzione di ben 18 imprese di consulenza lobbistica da parte della società  californiana, il senatore racconta che i suoi colleghi hanno definito l’atto col quale è stata costituita la Commissione «Leahy Full Employment Act»: una norma per la piena occupazione. «Più che un comitato — scherza Leahy — il mio è un cantiere dove vengono realizzate opere pubbliche».

Insomma, niente di nuovo sotto il sole. La costituzione di un Political Action Committee è un passo fatto a suo tempo da molte grandi aziende desiderose di far ascoltare la loro voce a Washington. E Microsoft, che deve continuare a seguire molti dossier al Congresso e presso le varie «authority» governative su questioni di antitrust, brevetti, rapporti con la Cina, libero scambio e «copyright», ancora oggi spende molto più dei rivali di Google per la politica ed ha un numero ancora superiore di lobbisti.

Semplicemente, fa impressione vedere imprenditori-ragazzi che erano stati trasformati in idoli della filosofia libertaria della Rete, omologati ai vecchi «padroni del vapore». Per Mark Zuckerberg si delinea un futuro con meno felpe e più cravatte «regimental».


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