Guru. Così Jobs ha trasformato un marchio in una filosofia di vita (globale)

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In principio fu la mela, il frutto dell’innocenza perduta e della voglia che nonna Eva morse strappandoci alla eterna monotonia dell’Eden. Senza ancora rendersi conto appieno che da quel simbolo insieme mistico e scientifico – la mela del Serpente ma anche la mela di Newton – sarebbe nata una setta religiosa e lui ne sarebbe stato il guru. Steve Jobs l’arabo americano abbandonato al grande fiume dell’America dai genitori naturali come Mosè nella cesta sul Nilo aveva intuito quello che nessun altro aveva capito nel vortice stordente dell’epoca degli hippies: che l’età  del computer per tutti, allora all’alba, avrebbe risvegliato nell’umanità  il più profondo e insaziabile dei bisogni. Quello di credere in qualcosa e dunque di “appartenere” a qualcuno.
Ora che guardiamo e viviamo il calvario del profeta, trentacinque anni dopo la creazione di un simbolo inventato da un’agenzia pubblicitaria che rivaleggia per riconoscibilità  universale con la croce, la mezzaluna, le orecchie di Topolino, gli svolazzi corsivi della Coca Cola e le due grandi mammelle d’oro della McDonald’s, oggi, la trasformazione trascendentale di un prodotto in un oggetto di fede, di un capo azienda in un capo mistico, è ovvia. È diventato facile capire che la Apple è molto più di un’azienda o di un catalogo di gadget, di telefonini e di computer.
Non si “compera” un iPad, un MacBook, un iPhone, un iPod come si sceglie una Ford invece di una VW, un portatile Dell piuttosto che un Toshiba. Ci si “converte” alla Apple. «Mi sono convertito al Mac» è l’espressione più usata da chi, dopo anni di uso di altri e pur eccellenti sistemi, Pc o gadget, compie un passo che appare, infatti, come l’adesione a un culto. Se non rischiasse di apparire blasfemo, si potrebbe dire che quella dei “melisti” non è una comunità , ma una comunione.
L’evoluzione del suo fondatore verso la figura del “guru”, colui che ti conduce oltre il buio alla luce, è stata insieme pianificata e involontaria. È stato come se lo stesso Jobs, partito da alcune notevoli ma non straordinarie scelte industriali assemblando nella propria grotta di Betlemme – il garage – circuiti e programmi già  esistenti, avesse scoperto cammin facendo la propria vocazione a essere altro che un ennesimo assemblatore di circuiti.
Non era quella di formare un nuovo culto, con gerarchie, vescovi, “evangelizzatori” come si chiamavano i propagandisti del primo Macintosh (il nome di una qualità  di mele, a proposito) l’intenzione originale. Al contrario, il paradosso del culto melista sta proprio nel suo essere nato dall’ambizione di rovesciare le chiese informatiche esistenti, in primis l’odiata e ubiqua Ibm con il sistema operativo Microsoft di Bill Gates. Era stata rappresentata nel celeberrimo spot televisivo del 1984 e nella pesante allusione orwelliana agli schiavi che spezzano le catene del Grande Fratello. Ma tutte le nuove religioni nascono sempre come segnali di contraddizione verso l’esistente, prima di diventare ciò che volevano demolire.
Questa, ed è la controprova della metamorfosi classica di un eretico in un pontefice se non viene prima impalato, è esattamente la strada che Jobs ha percorso, arrivando a rendere – come ha scritto Virginia Postrel per Bloomberg News – il business e il businessman attraenti, cool e ammirevoli di nuovo dopo l’odio collettivo degli anni ’60 e ’70. Via via più dispotico e assolutista, soprattutto dopo l’esilio ordinato dai giuda della azienda creata da lui e il richiamo per disperazione, trattava dipendenti e collaboratori secondo gli estremi della collera e dell’amore, senza compromessi. Gli annunci di nuovi prodotti dovevano avvenire in concistori annuali preceduti dalla più impermeabile segretezza, i “MacWorld” meeting. La liturgia si faceva sempre più intensa e mistica, culminando nell’apparizione di lui, nel suo maglioncino nero su fondo nero, sempre più scheletrico, ascetico, fino al momento della rivelazione di qualcosa che avrebbe cambiato “per sempre” la nostra vita. «Ancora una volta» predicava, indifferente all’ossimoro, alla contraddizione fra quel «per sempre» e quell’«ancora una volta».
Gli altri ridevano e irridevano, come si ride inizialmente di tutti i profeti, le guide spirituali, i guru. Risero quando la Chiesa della Divina Mela fece nel 2001, quel passo che altre aziende pur leggendarie, come la Sony giapponese, avevano tentato senza successo: aprire negozi in proprio. Ma, di nuovo, Jobs aveva seguito lo schema di ogni culto: la necessità  di avere templi consacrati esclusivamente al proprio vangelo, non più condivisi con lavatrici e televisori, frigoriferi e altri brutti computer nello spazio confuso e dozzinale delle grande catene commerciali. Aprì la sua prima chiesa in una località  inattesa.
Non nella Silicon Valley californiana dei computer geek, dei secchioni dell’informatica, ma in un enorme e disordinato shopping center in Virginia, nei sobborghi di Washington, chiamato Tyson’s Corner, pochi mesi prima dell’11 settembre. Il suo primo “Apple Store”, organizzato secondo uno schema che sarebbe poi stato riprodotto per centinaia di volte, brillante di luci, brulicante di chierici servizievoli e sorridenti con magliette uguali, organizzato con la navata centrale per tutti, le sacrestie per chi voleva approfondire la catechesi, gli officianti, e tutta la produzione disponibile a chi ci volesse giocare, spiccava come un faro luminoso e accogliente nel techno suk dei negozi di mutande e di profumi.
Dieci anni dopo, sono aperti 400 templi in 12 nazioni del mondo e nuovi luoghi di culto vengono consacrati al ritmo di 30 all’anno, fondamentalmente identici nell’atmosfera. È il sentimento affettuoso, rilassante e confortante del fedele che entri nella Notre Dame di Saigon come nella Notre Dame di Parigi e riconosca immediatamente i segni e i richiami della propria appartenenza, nei segni, negli arredi, nelle icone, nell'”applese”, la lingua della liturgia.
È in questa prodigiosa convergenza di trascendenza e di cassa, di appartenenza e di cambiamento, che il misticismo di Jobs si è fuso con il marketing. Con un elemento di vantaggio formidabile. Dalla conversione e dalla obbedienza al totalitarismo soft della “Casa” e dei suoi dogmi, il catecumeno esce tenendo fra le dita l’ex voto. Il paradiso è a portata di carta di credito, chiuso sotto il cellophane della scatola. Dio c’è e lo sfioro con le dita. Almeno fino a quando ci sarà  il suo guru.


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