I buoni motivi per evitare il saccheggio

by Sergio Segio | 30 Settembre 2011 7:40

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Nel primo caso infatti si tratta di trasferimento immediato o graduale di un bene o di un servizio dal settore pubblico a quello privato (privatizzazioneliberalizzazione) mentre nel secondo caso il medesimo trasferimento (di una proprietà  o di un’attività  d’impresa) è dal privato al pubblico. In un processo di privatizzazione il governo cioè non vende quanto è suo ma al contrario quanto appartiene pro quota a ciascun componente della comunità , proprio come quando espropria un campo per costruire un’autostrada esso acquista (coattivamente) una proprietà  che non è sua. Ciò significa che ogni processo di privatizzazione deciso dall’autorità  politica attraverso il governo pro-tempore espropria ciascuno di noi della sua quota parte del bene comune espropriato, proprio come avviene nel caso dell’espropriazione di un bene privato. Tuttavia, mentre la tradizione costituzionale liberale tutela il proprietario privato nei confronti dell’autorità  pubblica (Stato) attraverso l’indennizzo e richiede che una legge dichiari la pubblica necessità  dell’espropriazione, nessuna tutela giuridica (men che meno costituzionale) esiste nei confronti dello Stato che trasferisce al privato beni della collettività  (beni comuni) che non siano detenuti in proprietà  privata.
Di ciò manca completamente la consapevolezza non solo a livello politico, visto che la privatizzazione è considerata un’opzione assolutamente libera e percorribile dal governo in carica per il sol fatto di esserlo (al seminario romano di ieri Tremonti e Letta si comportavano da “padroni” dei nostri beni) ma anche a livello degli operatori e teorici del diritto proprio per la mancanza di elaborazione teorica della nozione di bene comune. Questa asimmetria costituisce un anacronismo giuridico e politico che deve essere assolutamente superato, soprattutto in virtù del mutato rapporto di forza fra gli Stati ed i grandi soggetti economici privati transnazionali. Infatti, le conseguenze di questa asimmetria costituzionale si stanno provando devastanti. Consentire al governo in carica che vendere liberamente beni di tutti (beni comuni) per far fronte alle proprie necessità  contingenti di politica economica, è sul piano costituzionale tanto irresponsabile quanto lo sarebbe sul piano familiare consentire al maggiordomo di vendere l’argenteria migliore per farsi carico della sua propria necessità  di andare in vacanza. Purtroppo l’assuefazione alla logica del potere della maggioranza tipica della modernità  ci ha fatto perdere consapevlezza del fatto che il governo dovrebbe essere il servitore del popolo sovrano e non viceversa. Certo, il maggiordomo (governo) deve poter disporre dei beni del suo padrone (beni comuni della collettività ) per poterlo ben servire, ma deve esserne amministratore fiduciario (sulla base di un mandato o al massimo di una proprietà  fiduciaria) e certo non proprietario libero di abusarne alienandoli e privatizzandoli indiscriminatamente. Infatti i beni comuni una volta alienati o distrutti non esistono più, né sono riproducibili o facilmente recuperabili né per la generazione presente che si dovesse render conto di aver scelto (a maggioranza) un maggiordomo scellerato, né per quella futura cui non si può neppure rimproverare la scelta del maggiordomo. Ecco che la questione dei beni comuni non può che avere valenza costituzionale (o costituente) proprio perché è nelle costituzioni che i sistemi politici collocano le scelte di lungo periodo sottratte al rischio di arbitrio del governo in carica.
All’attuale condizione di inconsapevolezza politica diffusa e di conseguente accettazione generalizzata della visione dominante del mondo (la rivoluzione reaganiana è stata possibile e poi diffusa in tutto il mondo esattamente accettando la logica del maggiordomo dissipatore e del popolo sovrano inconsapevole espropriato) è urgente opporre l’elaborazione teorica e la contestuale tutela militante dei beni comuni come un genere dotato di autonomia giuridica e strutturale nettamente alternativa rispetto tanto alla proprietà  privata quanto a quella pubblica (intesa come demanio eo patrimonio dello Stato e delle altre forme di organizzazione politica formale). Ciò è tanto più urgente nella misura in cui il maggiordomo è oggi vittima del vizio capitale del gioco ed è conseguentemente piombato nelle mani degli usurai che paiono assai più forti di lui e che ne controllano ogni comportamento. Nella stragrande maggioranza delle realtà  statuali (e l’Italia dal ’92 fa tutt’altro che eccezione) infatti il governo, controllato capillarmente da interessi finanziari globali, dissipa al di fuori da ogni controllo i beni comuni utilizzando come spiegazione naturale (e dunque politicamente in gran parte accettata) la necessità  autoriproducentesi di ripagare i suoi debiti di gioco. Questa logica perversa che naturalizza uno stato di cose che è tuttavia frutto di continue e consapevoli scelte politiche camuffate da necessità , deve essere smascherata perché i popoli sovrani possano riprendere controllo (ancorché forse tardivo) dei mezzi che consentono loro di vivere un’esistenza libera e dignitosa. Bisogna fra capire a Tremonti e Berlusconi, ma anche a quanti nella cosiddetta opposizione condividono questo realismo politico fatto di false necessità , che il popolo italiano non vuole vendersi il patrimonio per ripagare i debiti di gioco di una classe dirigente incapace e disonesta. Ci abbiamo provato con il referendum ma il maggiordomo vizioso, sorretto da un dispositivo ideologico incostituzionale sostenuto al più alto livello, non pare sentire ragioni. Non ci resta che insistere in tutti i modi possibili. Il 15 ottobre ci darà  un’altra preziosa occasione di far sentire chiara e forte la voce del popolo saccheggiato: bisogna invertire la rotta.

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