Il grande sonno

by Sergio Segio | 25 Settembre 2011 6:33

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E’ il debito inestinguibile che la modernità  esige dall’uomo che ha sfidato la propria natura: il sonno. L’inquieto principe di Danimarca che voleva dormire per – forse – sognare, nel Ventunesimo secolo avrebbe sognato di dormire, come i miliardi di uomini e di donne costantemente, a volte ossessivamente, alla ricerca del sonno perduto. Viviamo in un tempo che ci ascolta invocare invano il nome di quel dio dispettoso, Hypnos, anche più che il cugino Eros, che ci tradisce quando lo desidereremmo, guardando le cifre della sveglia digitale che avanza verso l’allarme e cercando il lato fresco del cuscino. E poi ci aggredisce quando non lo vorremmo, sulla panca delle metropolitane oltre la stazione desiderata, alla proiezione della Corazzata Potà«mkin, in aula durante la lezione di filosofia del diritto. A nessun dio l’umanità  ha sacrificato più riti e pozioni, più cerimonie e pillole – quaranta miliardi di dollari all’anno in farmaci ipnotici da ricetta negli Stati Uniti, più miliardi in rimedi effimeri e placebo miracolosi – di questa soave carogna.
Il debito con il sonno è più inestinguibile del debito pubblico italiano e ci circonda ovunque. Dormono a milioni nel sonno glutinoso del pendolare perenne i salarymen giapponesi, i salariati sui convogli che li portano dall’ufficio ai lontanissimi sobborghi, nel riposo crudele del commuter casa-lavoro-casa in tutto il mondo. Ho visto dormire persino i vigili del fuoco e i poliziotti affranti dalla fatica e dal dolore nella notte dell’11 settembre, perché Hypnos ha i suoi momenti di misericordia, e la paura, come sa ogni soldato al fronte, concilia il plumbeo abbandono nel vuoto a ogni occasione di bivacco o sosta.
Già  Sigmund Freud, medico al fronte con l’esercito austroungarico, notava che nelle trincee scompaiono le nevrosi e il sonno cala facile e pietoso come un angelo sul soldato sospeso fra un assalto e un bombardamento. Ho dormito «come un bambino», luogo comune smentito da ogni genitore costretto ad alzarsi più volte nella notte per calmare i risvegli del neonato, anche sotto i missili di Saddam Hussein in Arabia, con la tuta di cerata anti armi chimiche indosso o sull’aereo militare saudita che invano tentò per cinque volte di azzeccare la pista di atterraggio prima di centrarla ed evitare così che il mio sonno si facesse eterno.
Non esiste un numero magico buono per tutti. La autorevolissima Mayo Clinic se la cava indicando fra le «sette e le nove ore» la durata ideale per un adulto, contro le dieci o undici per un bambino in età  scolare (tanti cari auguri, gentili genitori) ma poi, secondo i dettati dell’astrologia e della miglior clinica, si cautela precisando che «più della quantità  conta la qualità  del sonno», la durata del Rem, la fase del movimento rapido degli occhi. I colossi di Big Pharma, le grandi multinazionali, investono fortune nella caccia a quella pillola miracolosa, quel Viagra da riposo, che salderà  il debito senza esigere interessi di effetti secondari, assuefazione, rintontimenti, e decretano con studi epidemiologici che tutti crediamo di dormire più di quanto in realtà  dormiamo. E meno di quanto vorremmo, firmando una cambiale che non potrà  mai essere saldata, neppure nell’eterna illusione della giornata festiva o delle ferie. Dormono, sorprendentemente, secondo la National Sleep Foundation, in media un poco di più (mezz’ora) le femmine dei maschi, e negli Usa molto meno i neri dei bianchi, ma non perché il dna africano impedisca loro il sonno. Perché molti sono gli afroamericani costretti a fare due lavori al giorno o a subire i turni peggiori.
Chi non conosce la sofferenza dell’addormentamento, l’insonnia iniziale, o del risveglio antelucano, l’ora diabolica nella quale si agitano gli spettri dell’angoscia, l’insonnia terminale, prova un’insensata invidia per la madre che allatta e deve combattere con le palpebre plumbee, per il pendolare che ronfa con la bocca aperta abbandonato sulla spalla del vicino, per l’ospite che nel primo dopo cena rivolta gli occhi nelle orbite lottando contro l’abbiocco. L’insonne stenta a capire il caso celebre scandaloso dei due piloti di un jumbo jet in volo sull’Atlantico che si addormentarono entrambi e furono svegliati dalle grida disperate dei controllori di volo in cuffia e dalle assistenti di volo che la compagnia era riuscita a contattare grazie ai telefoni di bordo. Come l’inappetente che non capisce il mangione e si sente assediato da ripugnanti buffet, così l’insonne crede di vivere in mondo perennemente appisolato, mentre soltanto lui veglia. La tortura naturale diventa quindi facilmente strumento di sevizie artificiali, ben conosciuto agli aguzzini che ricorrono alla sleep deprivation, alla privazione del sonno per costringere le loro vittime a perdere il controllo di loro stesse e confessare qualsiasi cosa. Raccontava Menachem Begin, il premier israeliano che da giovane conobbe in Urss le tenere cure della Nkvd, la polizia segreta staliniana: «Nella testa dell’interrogato comincia a formarsi una foschia che impedisce di pensare, di ragionare, di reggersi in piedi ed è rotta soltanto da un desiderio bruciante e fisso di dormire. Neppure la fame e la sete sono lontanamente paragonabili agli effetti della privazione forzata del sonno».
Il Guinness dei primati attribuisce a una donna, l’inglese Maureen Weston, il record mondiale dell’insonnia totale, con diciotto giorni e diciassette ore, ma l’unico caso scientificamente studiato dai neuropsichiatri della Marina americana, resta quello di Randy Gardner, che rimase sveglio, senza l’uso di farmaci stimolanti, per undici giorni. Numeri sbalorditivi, ma certamente più credibili dei trentatré anni senza dormire vantati dal contadino vietnamita Thau Ngoc, secondo la non sempre attendibilissima agenzia di stampa di quella nazione. Di fatto, tutti i tribunali internazionali per i diritti umani, la Corte dell’Aja, l’Onu, il governo degli Stati Uniti scosso dalle rivelazioni sulla prigione di Abu Ghraib e poi sul lager di Guantanamo hanno inserito la privazione del sonno fra i dieci peggiori «trattamenti disumani» (leggi, tortura) dei prigionieri. Eppure un assaggio di questa disumanità  è assaporata milioni e milioni di volte a ogni calare della notte, nella giostra dei fusi attraverso il mondo, spesso da innocenti condannati a orari e turni e trasferimenti efferati per lavorare o per trovare un’abitazione a prezzi abbordabili. Chi non dorme, o chi deve rubare un sonnellino alla giornata o lottare al volante contro il micidiale colpo di sonno, per il quale le auto di lusso e più avanzate oggi offrono protezioni elettroniche osservando le palpebre del guidatore e scuotendo il volante, aborre tutta l’odiosa sapienza popolare dell’«oro in bocca», del «pigliapesci». Fruga nell’armadietto delle benzodiazepine, degli oppioidi, dei rimedi via via di moda, melatonina, triptofan, antistaminici, pozioni erbali di efficacia spesso proporzionata soltanto alle fede di chi li inghiotte, essendosi dimostrata ormai l’inefficacia delle pecore, dei rosari e persino della visione di Porta a porta.
Ognuno di noi, dal turnista di notte che ciondola ma non cade nelle carrozze vuote della subway di New York, alla mamma che si rigira pensando alla figlia fuori, al turista trafitto dall’agguato dei fusi e della differenza oraria, desidera e teme il sonno, lo corteggia e lo sfugge, nel suo essere la breve eppure chiara metafora quotidiana del lungo sonno.

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