Il neoliberismo in Costituzione

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 Tanto tuonò che alfine piovve. Ovvero dopo tante ingiunzioni (europee) e annunci (nostrani) il governo Berlusconi ha presentato la proposta di legge di modifica costituzionale che riguarda il pareggio di bilancio. Tremonti l’ha accompagnata da un comunicato dall’insolita enfasi, parlando della introduzione di un «principio ad altissima intensità  politica e civile». Dichiarazione da non sottovalutare, poiché è messa lì per giustificare la manomissione della prima parte della Costituzione, quella che riguarda i Diritti e i Doveri dei Cittadini. Il nuovo disegno di legge governativo, che consta di soli quattro articoli, muove infatti dalla modifica dell’articolo 53, collocato nel titolo IV (Rapporti Politici) della nostra Costituzione. Al testo esistente viene aggiunto un terzo comma in ragione del quale «la Repubblica, in conformità  ai vincoli economici e finanziari che derivano dall’appartenenza all’Unione europea, persegue l’equilibrio dei bilanci e il contenimento del debito delle pubbliche amministrazioni, anche assicurando le verifiche a consuntivo e le eventuali misure di correzione, in base ai principi e ai criteri stabiliti con legge, approvata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna delle Camere».

L’articolo 53 è finora costituito da due commi che stabiliscono il principio fondamentale della progressività  del nostro sistema tributario. Un vero e proprio cardine non solo per quanto riguarda il funzionamento materiale dello stato e dal quale dipendono tutte le leggi in materia fiscale, ma perché dà  attuazione ai principi di equità  e giustizia sociale cui la nostra Costituzione si ispira. Con la modifica voluta dal governo i vincoli imposti sul piano strettamente economico e fiscale vengono elevati al rango di principi fondamentali, costituzionali appunto, che dovrebbero regolare i diritti e i doveri dei cittadini. L’irruzione delle ragioni dell’economia – peraltro del tutto sbagliate nello specifico – dentro il sistema dei valori fondativi di un paese non poteva essere più violento e brutale. Il trattato di Maastricht e le decisioni economiche successive e conseguenti hanno la meglio non solo su un disegno irrealizzato di Costituzione europea, quale sistema di valori codificato e fondante di un’Europa dei popoli, ma anche su una delle Costituzioni più avanzate nel mondo, quale è quella del nostro paese. Il revisionismo storico, provvisoriamente rientrato dopo la rinuncia alla cancellazione delle festività  laiche del 25 aprile, del Primo maggio e del 2 giugno, ritorna nella sua forma più distruttiva della memoria e della religione civile di una nazione.
Il forte impatto ideologico di questo primo articolo del disegno di legge del governo fa quindi premio sulla macchinosità  della sua concreta applicazione, come risulta dalla lettura del secondo comma che modifica l’articolo 81 della Costituzione e che contiene le modalità  concrete con le quali dovrebbe realizzarsi il pareggio di bilancio. Infatti l’indebitamento dello Stato non è permesso «se non nelle fasi avverse del ciclo economico nei limiti degli effetti da esso determinati, o per uno stato di necessità  che non può essere sostenuto con le ordinarie decisioni di bilancio». Verrebbe da dire che è davvero complicato stabilire quali siano le «fasi avverse del ciclo economico» in una situazione di stato di crisi praticamente permanente del sistema capitalistico mondiale, oltretutto destinata a durare ben al di là  dell’esercizio finanziario 2014 quando dovrebbe entrare in vigore la nuova legge secondo quanto esplicitamente previsto nell’articolo 4. In un quadro di questo genere ciò che è previsto come eccezione diventerebbe di fatto la regola. Nello stesso tempo è evidente l’ipocrisia sottesa in una simile soluzione – che pure ricorre anche nella versione tedesca – poiché essa implicitamente denuncia il fatto che le crisi non sono affrontabili senza potere prevedere un intervento pubblico in soccorso all’economia e senza che questo produca una spesa in deficit.
Vi è poi da chiedersi quale autorità  possa stabilire se non ex post, in sede storica, “a babbo morto”, quando cioè ogni provvedimento se non inutile sarebbe irrimediabilmente tardivo, quali siano i casi in cui le fasi possano essere definite come «avverse» in un ciclo economico. Ma qui l’immaginazione governativa fa ricorso alla cultura dell’emergenzialismo di cui sono intrise le moderne classi dirigenti, anzi più precisamente a quella dello “stato di eccezione” sulla quale aveva scritto indimenticabili pagine critiche Giorgio Agamben qualche anno fa. Infatti saranno le Camere, si noti bene a maggioranza assoluta e non di due terzi come nel primo comma, a dichiarare l’esistenza o meno di un simile stato di necessità . Come si vede siamo di fronte ad una drammatizzazione e spettacolarizzazione che trova un inquietante parallelismo nella deliberazione dello stato di guerra da parte delle Camere.
L’articolo 3 a questo punto non fa altro che uniformare le recenti norme costituzionali in materia di federalismo fiscale ai vincoli del pareggio di bilancio, iscrivendole in una nuova gabbia che fa strame di ogni vocazione all’autonomia degli enti locali.
Siamo quindi di fronte a qualcosa di ancora peggio che la fine di ogni politica economica, dal momento che il vincolo al pareggio di bilancio riduce lo stato a un ruolo meramente ragionieristico, salvo svenarsi quando il sistema dell’economia retta dal libero mercato ha combinato i suoi guasti. Siamo di fronte al tentativo di capovolgere i nostri valori di fondo, al tentativo di costituzionalizzare il neoliberismo.
Il cammino della legge non sarà  breve, dovendosi per la modifica costituzionale fare una doppia lettura di ciascuna camera. Ma sarà  bene fin d’ora aprire nel paese una battaglia culturale, civile e politica in difesa del principio dell’intervento pubblico in economia, oltre che a tutela dei beni comuni, e della nuova qualità  che questo può assumere se si congiunge con una idea alternativa e trasformativa dell’economia e della società . Sarà  bene prepararsi fin d’ora, con adeguate iniziative e strumentazioni, a reggere l’impatto del referendum confermativo se la proposta di legge del governo non dovesse ottenere, come ci auguriamo, la maggioranza dei due terzi per poterlo evitare.


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