Il paradosso della miseria nella società  dell’abbondanza

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EMACIATO come un ricco, obeso come un povero, il paradosso della miseria nella società  dell’abbondanza rovescia millenni di storia umana e di stereotipi sulla fame. Non ci sono mai stati tanti “poveri” ufficiali, 40 milioni su 310 milioni di abitanti, da quando l’ufficio del Censimento americano tiene i conti e non c’è mai stato tanto grasso nel corpo di una nazione dove chi ha meno soldi mangia di più.
È quello che il giornale amerivcano New York Times ha chiamato appunto “The Bronx Paradox”.
È l’apparente anomalia del quartiere statisticamente più miserabile fra i cinque borghi che formano la città  nel quale si consuma più cibo che negli altri quattro. Né c’era bisogno delle conferme statistiche o epidomiologiche, soprattutto tragiche nella relazione implacabile fra obesità  e diabete anche infantile, per vedere in azione il paradosso attraverso the land of plenty, la terra dell’abbondanza fra i due Oceani.
Nelle baracche e casette mobili degli Oglala Siuox in South Dakota, le stanzette sono oppresse da cataste di patatine fritte e confezioni da caserma di snack, di bottiglioni di Coca e Pepsi, di orride cene untuose e pronte e preconfezionate. Nei villaggi sul delta del Mississippi, che contende alle riserve degli indiani del Nord-ovest le ultime posizioni nel reddito per famiglia, sulla cigolante sedia a dondolo sotto il porticato davanti alle lagune, ai “bayou”, tirano sera donnone straripanti, uomini dal ventre debordante oltre ogni possibile capienza di calzoni, bambini gonfi di calorie e di zuccheri.
È un popolo in crescita continua, nel numero, nel peso e nei costi sulle spese sanitarie, questo dei cosiddetti “poveri”, che poi poveri non sarebbero affatto secondo i criteri di valutazione del resto del mondo. Il programma federale dei “Buoni Cibo”, i food stamp emessi dal Ministero dell’Agricoltura al prezzo di 180 miliardi annui – che già  copre appunto i 40 milioni di persone sotto la soglia dell’indigenza posta a 22mila e 350 dollari all’anno per una famiglia di quattro persone (nel mondo l’Onu la fissa a 1 dollaro e 25 centesimi al giorno, 450 all’anno) – deve coprire 20mila persone in più ogni giorno. Sono il veicolo necessario eppure micidiale verso il consumo di calorie a poco prezzo.
Fate la fila al “check out”, alle casse dei grandi empori alimentari scontati nell’Oklahoma della perenne siccità  o nei sobborghi di Atlanta, città  boom oggi appassita, e vedrete corpulente signore spingere carrelli stracolmi di “calorie vuote”, come le definiscono i nutrizionisti. Alimenti che creano sazietà  a poco prezzo e dunque devono abbondare di grassi, possibilmente fritti, di carne trita della qualità  più economica. Il cibo che soddisfa di più è quello che costa di meno ed è facile condannare una mamma che rimpinza la figliolanza di fast food, quando deve allevare tre o quattro bambini lavorando – come vuole la media della povertà  – 16 ore alla settimana. Quella combinazione di hamburger, patatine fritte e milk shake, frappé al cioccolato, spesso in offerta promozionale per 99 centesimi è una proposta irresistibile.
È proprio nella esplosione delle madri single, di donne abbandonate o legalmente divorziate dal padre dei loro figli, una delle cause più ovvie dell’aumento della povertà  ufficiale. Recessioni, crack finanziari che si riflettono sull’economia quotidiana, pignoramenti, bollette non pagate, soprattutto parcelle di medici e di ospedali – la prima causa di bancarotta individuale – aggravano e infine distruggono situazioni di economia domestica già  fragili. Ma il rapporto fra aumento delle famiglie con una donna sola a capo e la povertà  è troppo evidente per essere casuale: quando il presidente Lyndon Johnson dichiarò la sua “Guerra alla Povertà ” nel 1964, la percentuale degli indigenti era del 19 per cento e le famiglie con un solo genitore – la mamma – era del 4%. Oggi, il 38% dei bambini sono allevati soltanto dalla madre e il livello della povertà  sta al 40%.
Statistiche e grafici che dicono molto e niente, che possono essere letti alla rovescia, criticati da chi, a destra come la Heritage Foundation, fa notare che i cosiddetti poveri non sono poi tanto poveri, se nelle loro case si trovano tutti gli orpelli della modernità  elettronica e consumistica, il lettore di Dvd e il condizionatore aggrappato alla finestra, l’automobile, posseduta dal 70% dei poveri, e la tv a pagamento via cavo. Magari dimenticando che l’automobile è più indispensabile del cibo per restare aggrappati ai lavoretti d’occasione o giornalieri, in Stati e in megalopoli come Los Angeles, Dallas-Fort Worth, Miami, dove il trasporto pubblico è ridicolo.
Dunque il mangiare, le cataste di patate fritte e di chips, le cisterne di gassose, l’hamburger grondante di ketchup, non sono più soltanto alimentazione, per il povero nella terra dell’abbondanza. Sono compensazione, illusione di partecipare al banchetto di una terra che deve impedire ai propri agricoltori di coltivare più campi per non inondare la nazione di cibo che nessuno consumerà  e che nessuno esporterà . Le prediche e le terrificanti ricerche epidemiologiche sul mangiar sano e sulla correlazione fra obesità  e patologie gravi di ogni natura, funzionano sui frequentatori dei nuovi tempi del cibo “organico” o biologico come si preferisce dire da noi, della carne allevata senza pompaggi di ormoni e di antibiotici, della frutta e della verdura fresche, che hanno il solo difetto, fra i tanti pregi, di costare assai più delle alimentazioni industrializzata.
La mamma povera non è scema. Sa benissimo, come la propria corrispondente più agiata, che un’insalata di pomodori è meglio di una manciata di patatine fritte, che un petto di pollo alla griglia è assai più raccomandabile di un polpettone di carne trita ustionato sulla piastra nel suo sego. Ma sa che una stecchetta di burro di noccioline avvolta nel cioccolato cinturata da strati di zucchero caramellato e cosparsa di mandorle triturate costa meno di un pompelmo e sazia fino alla stecca successiva i propri figli. Dar da mangiare è tutto quello che può fare, è tutto quello che può sperare non osando immaginare che la figlia possa mai permettersi gli almeno 50mila dollari annui della retta di una buona università . La ninna nanna del bambino americano povero è il frusciare del sacchetto di plastica aperto per imbottirlo. Mangia, bambino mio, mangia che sei povero.


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