IL PETROLIO E LA CRISI DELL’EUROPA

by Sergio Segio | 6 Settembre 2011 6:53

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Tenetevi ben stretti cappello e portafogli. A partire dalla fine della Guerra Fredda il sistema globale in buona parte ha resistito tenendosi insieme grazie a quattro basilari assetti di potere. Oggi tutti e quattro si stanno sgretolando contemporaneamente, e si rende pertanto necessario ricostruirli. Se e quando la loro ristrutturazione avrà  luogo – a cominciare dagli Stati Uniti – si rivelerà  determinante per quello che vi ritroverete nel portafogli e se il vostro cappello sarà  volato via o no.
Permettetemi di essere più chiaro: l’Unione Europea si sta sfasciando. Il mondo arabo pure. Il modello di crescita cinese è sotto pressione, mentre il modello capitalistico americano spinto dal credito ha subito un preoccupante colpo al cuore ed esige una trasformazione radicale. Ricostruire ciascuno di questi quattro pilastri da solo sarebbe un’impresa immane. Ricostruirli tutti e quattro contemporaneamente – ora che il mondo è interconnesso come mai prima d’ora – è semplicemente inconcepibile. Ancora una volta “assistiamo alla creazione”. Ma di cosa?
Iniziamo dal Medio Oriente, il rubinetto petrolifero mondiale. I libici si sono appena aggiunti ai tunisini, agli egiziani e agli yemeniti per aver destituito il loro tiranno, mentre i siriani e gli iraniani auspicano di riuscire a farlo anche loro al più presto. In pratica, col passare del tempo, ogni despota mediorientale sarà  deposto o sarà  costretto a cedere una fetta di potere. Il vecchio modello non può più reggere: esso, infatti, si basava su sovrani e capi militari che si impossessavano dei proventi petroliferi, si arroccavano al riparo al potere, si proteggevano con eserciti ben remunerati e con i servizi di sicurezza, e compravano letteralmente il favore di segmenti chiave della popolazione. Adesso quel coperchio è stato fatto saltare in aria dallo scatto di una gioventù araba che ormai può facilmente farsi un’idea di come stia vivendo chiunque altro nel mondo, e non è più disposta ad accettare di restare indietro, di non essere istruita, di non avere un posto di lavoro, di essere umiliata e impotente. Tuttavia, se è vero che è venuto a mancare questo vecchio sistema mediorientale – che si basava sul pugno di ferro e su una manciata di petrodollari in grado di tenere insieme società  multietniche e multireligiose – , è anche vero che occorrerà  del tempo prima che queste stesse società  riescano a elaborare un loro contratto sociale e redigere una propria costituzione per determinare in che modo convivere senza che nessuno eserciti più il pugno di ferro dall’alto. Speriamo per il meglio, ma prepariamoci a tutto.
Molto più a nord, è stata una bella pensata davvero quella dell’Unione Europea e della zona euro: adottiamo un’unione monetaria e una valuta comune, ma lasciamo pure che ognuno decida per sé della propria politica fiscale, a patto di impegnarci tutti ufficialmente a lavorare e risparmiare come i tedeschi. Ahimè, era troppo bello per essere vero. In alcuni paesi europei, privi delle entrate necessarie a finanziarli con un’adeguata produzione locale, i generosi programmi del welfare pubblico alla fine hanno determinato un accumulo del debito sovrano – in buona parte di proprietà  delle banche europee – e così si è scatenata la rivolta dei prestatori. I risparmiatori e i produttori dell’Europa del Nord stanno ora abbozzando un nuovo accordo con gli spendaccioni – i cosiddetti Piigs, dalle iniziali di Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna. È improbabile che i tedeschi vogliano sgretolare davvero l’Unione Europea, in quanto una bella fetta delle loro esportazioni va proprio a finire in quei paesi che spendono oltre le loro possibilità  e non sono competitivi. Al contrario, gli europei del Nord stanno cercando di obbligare i Piigs ad adottare una disciplina più severa e più regolamentata. Ma quanta austerità  in più potranno assorbire questi paesi, soprattutto se vi saranno ulteriori stress sociali imputabili a più gravi recessioni? Altri popoli ancora scenderanno in piazza, oltre ai londinesi. In un modo o nell’altro, l’Unione Europea diventerà  più piccola o più inflessibile, ma in questo iter dovrà  di sicuro attraversare una transizione caotica e in grado di sconvolgere il mondo con modalità  che il mercato non riesce ancora a quantificare.
Spostandoci verso Est, troviamo la Cina che ha fatto affidamento su un modello che si reggeva su una valuta svalutata di proposito e su una crescita trainata dalle esportazioni, con bassi consumi interni e un forte tasso di risparmio. Ciò ha consentito al Partito Comunista al potere di stipulare un accordo pressoché unico con la popolazione: noi ti diamo lavoro e uno stile di vita sempre migliore, e tu ci lasci al potere. Questa intesa è ormai a rischio. L’ostinata e duratura disoccupazione negli Stati Uniti e in Europa, i mercati cinesi, sta rendendo sempre meno sostenibile per il mondo il modello di Pechino, che si regge appunto su una valuta sottovalutata, bassi consumi e forti esportazioni. La Cina, oltretutto, deve riuscire ad arricchirsi prima di invecchiare: deve poter passare dal modello dei due genitori che risparmiano per il loro unico figlio, al modello del figlio unico che paga le pensioni di entrambi i genitori. Per farcela, Pechino deve quindi evolversi da un’economia che si basa essenzialmente sull’assemblare, copiare e produrre a un’economia che si regga sulla competenza, i servizi e l’innovazione. Ciò a sua volta richiede maggiore libertà  e maggiore legalità , e già  entrambe sono sempre più richieste. Si renderà  inevitabile cedere qualcosa.
Per quanto riguarda l’America, negli ultimi decenni abbiamo conosciuto il benessere grazie a un’economia spinta dai consumi e dal credito, per mezzo della quale abbiamo mantenuto una middle classe utilizzando più gli steroidi (carte di credito facili, mutui subprime e una notevole attività  nel settore edilizio) che l’esercizio fisico (istruzione, formazione di competenze, innovazione) per farle venire muscoli veri. Tutto ciò ci ha trascinati in una voragine profonda, dalla quale potremo uscire soltanto per mezzo di una nuova politica ibrida, che sappia amalgamare sapientemente tagli alla spesa, aumenti delle tasse, riforma del fisco e investimenti nelle infrastrutture, nell’istruzione, nella ricerca e nella produzione. Questa soluzione però non è prevista dall’agenda di nessun partito. Di conseguenza, o i nostri due partiti troveranno il modo di collaborare dal centro a questa nuova politica ibrida, oppure dovrà  emergere un terzo partito. In caso contrario, resteremo nei guai e la situazione non potrà  che degenerare.
Nel momento in cui il mondo sta vivendo così tanti cambiamenti laceranti tutti in una volta – in presenza oltretutto di un tasso di disoccupazione già  alto e di un’economia ancora debole – è più che mai grande il bisogno che l’America, il pilastro più importante di tutti, sia solida come la roccia. Qualora non riuscissimo ad agire in concertazione e tutti insieme – e ciò richiederà  un’iniziativa comune globale, del tipo di quelle che di norma si riservano ai tempi di guerra – non soltanto prolungheremo la crisi dell’America, ma per di più ne alimenteremo una planetaria.
© 2011, The New York Times
Traduzione di Anna Bissanti

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