Il prezzo maggiore pagato dalle donne

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Le donne costituiscono infatti una grossa fetta dei dipendenti pubblici, che, dopo lo svillaneggiamento sistematico cui sono stati sottoposti come nullafacenti dal “loro” ministro, si sono visti bloccare i rinnovi del contratto, i trattamenti economici integrativi per il 2011-2013 e, nel caso degli insegnanti di ogni ordine e grado, gli scatti di anzianità . All’ultimo momento sembra che abbiano salvato tredicesima e Tfr; ma rimangono gli unici a dover pagare il contributo di solidarietà  se superano i 90 mila euro di reddito annuo. Il fatto che siano poche le donne che raggiungono quel reddito è una scarsa consolazione. Sempre nel pubblico impiego, le lavoratrici hanno subito la beffa di vedere sparire il fondo costituito dai risparmi prodotti dall’innalzamento dell’età  alla pensione. Esso avrebbe dovuto essere destinato al rafforzamento dei servizi, necessari per poter conciliare lavoro remunerato e lavoro famigliare.
Il governo, tuttavia, non è stato ai patti e si è appropriato del fondo per altri scopi. Un precedente di cattivo auspicio per l’estensione dell’età  pensionistica anche alle lavoratrici nel privato, che costituisce uno dei piatti forti dell’ultima versione della manovra. Consapevole, forse, del tradimento di quell’impegno, questa volta il governo non offre nessuno scambio tra equiparazione dell’età  pensionistica tra uomini e donne e politiche di conciliazione famiglia-lavoro. Oramai si tratta solo di fare cassa. Sono del tutto scomparse dal dibattito pubblico le questioni su cui si è dibattuto e ci si è scontrati finora rispetto alla equiparazione dell’età  alla pensione tra uomini e donne: il doppio carico di lavoro, remunerato e non, che sopportano le lavoratrici con responsabilità  famigliari, la necessità  di servizi di conciliazione per sostenere l’occupazione femminile e così via. Anzi, la forte riduzione dei trasferimenti agli enti locali produrrà  una ulteriore riduzione della offerta di servizi. Ciò a sua volta avrà  il duplice effetto di rendere più difficile alle donne con responsabilità  famigliari stare sul mercato del lavoro e di ridurre una domanda di lavoro – appunto nei servizi – che si rivolge prevalentemente alle donne. Saranno colpite soprattutto coloro che non hanno un reddito individuale e famigliare abbastanza alto da potersi permettere di acquistare servizi sul mercato e/o che non possono contare su una rete famigliare di sostegno e più precisamente su mamme, suocere, sorelle, cognate, che possano sostituire servizi mancanti o insufficienti e accettino di farlo.
Non stupisce che nessuna voce nel governo, pur nella generale cacofonia che accompagnato questa manovra, non abbia sollevato queste questioni. Da notare in particolare il silenzio tombale della ministra delle Pari Opportunità , la cui utilità  appare sempre più dubbia. Stupisce un po’ di più che non le abbia sollevate nessuno/a nell’opposizione, ove al più si è sentito parlare della famiglia come soggetto da difendere dai tagli. Come se, anche e soprattutto nella famiglia, la divisione del lavoro non avesse effetti differenti e disuguali sulle opportunità  e i vincoli sperimentati dalle donne rispetto agli uomini. Non si tratta di difendere ad oltranza una più bassa età  alla pensione delle donne, come fa la Cisl. Al contrario, si tratta di affrontare la questione di come sostenere efficacemente l’occupazione femminile, al tempo stesso riconoscendo i bisogni di cura e la necessità  che qualcuno la presti.
A febbraio sembrava che la presenza massiccia di donne in tutte le piazze d’Italia avesse posto le premesse perché non ci si potesse più dimenticare di loro nel formulare l’agenda politica e le scelte economiche e sociali. A qualche mese di distanza, ancora una volta, e nel silenzio del movimento, le donne appaiono nell’agenda politica solo come lavoro gratuito dato per scontato (e se possibile intensificato) e come responsabili di una spesa pubblica fuori controllo. Cittadine diseguali cui si chiede di pagare costi aggiuntivi per la propria disuguaglianza.


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