Iva, la tassa sui poveri: a loro costa il 60% in più che ai contribuenti ricchi

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ROMA – Peserà  soprattutto sui redditi bassi, su chi – lo voglia o no – impegna buona parte delle sue entrate in consumi. E l’aumento sarà  minimo solo all’apparenza, perché se è vero che l’aliquota sale di un punto solo, è altrettanto fuori dubbio che quel balzo rischia di mettere in moto il volano dell’inflazione, di provocare un ulteriore aumento di prezzi senza creare, d’altro canto, alcun intralcio agli evasori.
La scelta del governo di contrastare il debito pubblico alzando l’Iva dal 20 al 21 per cento non è una scelta equa. Lo dimostra uno studio di Corrado Pollastri, ricercatore del Cer (Centro Europa Ricerche), che mette a confronto i redditi delle famiglie e i maggiori esborsi legati all’imposta.
Di per sé l’Iva è regressiva: incide maggiormente sulle famiglie povere, su quei soggetti che consumano del tutto o in gran parte le risorse per acquistare beni e servizi. E anche se a versarla sono le imprese, il costo finale viene scaricato in gran parte sul consumatore finale. Considerando tutti i beni e tutte e tre le aliquote presenti sul mercato, sostiene lo studio, già  prima della manovra si poteva dire che per ogni mille euro di reddito le famiglie più povere (quelle che vivono con un reddito di nemmeno 8 mila euro l’anno) dedicano 143 euro all’Iva, le più ricche si fermano a 77. Ora con l’aumento dell’aliquota al 21 per cento i più poveri «sacrificheranno» all’Iva ulteriori 5 euro ogni mille di reddito, i più ricchi solo 3,2. Una sofferenza che pesa, nel primo caso, circa il 60 per cento in più.
Gli effetti della novità  si manifesteranno in molti casi con un po’ di ritardo. Il rincaro varato dalla manovra, infatti non riguarda i beni primari, ma una miriade di altri consumi che comunque entrano nel carrello-base delle famiglie: bevande e vino, ma anche abbigliamento, calzature e servizi vari. I prezzi di alcuni beni sono già  aumentati – la benzina prima di tutto, o le sigarette (dai 15 ai 20 centesimi in più a pacchetto) – ma altre mini-stangate sono in arrivo. «Basta aspettare che gli effetti del maggior costo dell’energia si abbattano sul trasporto e quindi sul prezzo dei prodotti finali» spiegano Adusbef e Federconsumatori. Ai centralini delle associazioni non sono arrivate particolari segnalazioni, ma già  si sa che riscaldare casa con il metano, quest’anno, costerà  in media 12 euro l’anno in più. E non è finita qui: lo studio del Cer mette in evidenza come, oltre ai rincari diretti, ne possano arrivare anche di indiretti. «In un mercato non perfettamente concorrenziale, un incremento simultaneo dei prezzi potrebbe indurre comportamenti opportunistici delle imprese oligopolistiche» si legge nel rapporto. Qualcuno potrebbe approfittarne per alzare i listini più di quell’1 per cento di Iva ordinato dalla manovra. Comunque sia, la misura non colpisce gli evasori: il commerciante, l’artigiano o il professionista possono applicare al prezzo l’imposta maggiorata, ma se non rilasceranno scontrino o ricevuta, lo Stato non ne vedrà  gli effetti. Le famiglie pagano, ma non è detto che il gettito aumenti. Non solo: il prelievo sui consumi è finalizzato a motivi di cassa e non a finanziare operazioni di crescita (per esempio non genera riduzioni del prelievo sul lavoro). Sembra quindi siano state le caratteristiche distributive dell’imposta (basso impatto medio pro capite, amplia platea, prelievo indiretto) «a far preferire l’opzione Iva rispetto a forme di prelievo più esplicitamente penalizzanti per segmenti della base elettorale di riferimento della maggioranza di governo».


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