LA CAMPAGNA DI OBAMA

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Certo, il calo è dovuto soprattutto alle dimissioni del tedesco Jà¼rgen Stark dal Consiglio direttivo della Banca centrale europea, ma il minimo che si possa dire è che – come impatto sui mercati – la proposta politica del presidente degli Stati uniti non ha neanche attutito (per non parlare di bilanciare) le dimissioni di un economista di medio calibro in Europa.
Mentre le Borse implodevano, Barack Obama è andato a Richmond per esporre agli studenti della Virginia il suo piano contro la disoccupazione. Questo viaggio non è casuale: Richmond è la circoscrizione elettorale di Eric Cantor, il capogruppo della maggioranza repubblicana alla Camera dei rappresentanti. Come non è un caso che martedì prossimo Obama farà  lo stesso a Columbus in Ohio, nello stato cioè del presidente repubblicano della Camera, John Boehner: era ora, ma Obama ha deciso infine di mettere l’occupazione al centro della prossima campagna elettorale (per il voto presidenziale nel novembre 2012), cercando di stanare i repubblicani che si oppongono a ogni misura di rilancio dell’economia.
Le misure annunciate ammontano a 447 miliardi di dollari, assai più dei 300 miliardi lasciati trapelare in precedenza, ma una cifra giudicata insufficiente dagli economisti. Dei 447 miliardi, 240 miliardi di dollari vanno in alleggerimenti fiscali: Obama propone non solo di estendere per i dipendenti il taglio del 2% sulla tassa (del 6,2 %) destinata a finanziare la Social security, l’Inps americana (quest’alleviamento scadrà  in teoria a dicembre), ma di portarlo al 3,1%, cioè di dimezzare l’onere sociale a carico del lavoratore. Anche ai datori di lavoro sarà  garantito un dimezzamento del 6,2 % di loro competenza sulla busta paga; e anzi, saranno completamente esentati da questa tassa sulle nuove assunzioni e sugli aumenti salariali. Sull’aritmetica del piano di Obama cala poi il mistero perché secondo tutti i giornali al mondo l’altra voce del piano è costituita da 140 miliardi in opere pubbliche e sostegni all’occupazione. Il problema è che 240 + 140 = 380 miliardi e non si capisce dove vanno i 67 che mancano all’appello per fare il totale di 447 miliardi di dollari citati dalla stampa (ma in verità  mai nominati nel testo del discorso di Obama). Il mistero s’infittisce se si va al dettaglio degli ultimi 140 miliardi. Secondo l’Economist, 25 miliardi sono destinati ai singoli stati e agli enti locali per riparare e riattare le 35.000 scuole pubbliche americane; 35 miliardi per mantenere occupati insegnanti, poliziotti e pompieri; altri 50 miliardi andrebbero a immediati lavori per strade e trasporti pubblici; e 10 miliardi a una banca delle infrastrutture che dovrebbe finanziare altri lavori. Ma anche così, il totale di queste voci fa 120 miliardi e non 140. Evidentemente la matematica è un’opinione.
I giudizi sul piano di Obama sono contrastanti e non solo secondo l’ovvio spartiacque per cui sarebbe piaciuto ai democratici e dispiaciuto ai repubblicani. Nella sua rubrica sul New York Times, il premio Nobel per l’economia Paul Krugman, di solito assai critico nei confronti di Obama, «è stato favorevolmente sorpreso dal piano che ho trovato più audace e migliore di quanto mi aspettassi, anche se non audace quanto auspicabile in un mondo ideale». La percezione più diffusa sembra però quella rappresentata dal titolo dell’analisi dello stesso quotidiano newyorkese: «L’accento sulle deduzioni fiscali sulla mutua riflette le modeste ambizioni del piano». L’articolo nota che i famosi lavori pubblici richiedono anni prima di incidere sul mercato del lavoro (passa quasi un biennio tra il momento in si decide di stanziare dei fondi e quello in cui un preciso cantiere è aperto); che la ricetta degli alleggerimenti fiscali è già  stata ampiamente sfruttata e non è sicuro che le famiglie usino per spendere in beni di consumo (quindi per far ripartire l’economia) i 1.500 dollari l’anno risparmiati sulle tasse; che in ogni caso la ricetta può, nella migliore delle ipotesi, creare 50.000 posti di lavoro al mese, mentre solo per mantenere l’attuale tasso di disoccupazione l’economia Usa dovrebbe generarne 100-150.000 al mese.
Comunque, 600.000 posti di lavoro in 12 mesi non sono da buttare via, soprattutto in un anno di elezioni presidenziali.
Il problema in realtà  è un altro, e lo mostra il balletto politico cui assistiamo da giorni. È vero infatti che i repubblicani vogliono impedire a tutti i costi che Obama si appropri il merito di aver risolto la crisi dell’occupazione, ma anche vero è che per i repubblicani è stato un vero boomerang politico il muro contro muro sull’autorizzazione di innalzare il tetto del debito pubblico, che ha rischiato di mandare l’America in bancarotta (oggi fa più elegante dire «in default»). Secondo un sondaggio del Wall street journal/Nbc, gli elettori incolpano di questa crisi i repubblicani più di Obama: i capi del Gop l’hanno capito, tanto che Boehner adesso dice che alcune idee di Obama «meritano considerazione». È la stessa ragione per cui mercoledì notte i parlamentari repubblicani hanno applaudito (di rado) il discorso di Obama, ma solo perché sapevano che una buona fetta di americani stava assistendo alla diretta Tv e non volevano apparire come il «partito del no di principio».
D’altra parte Obama ha visto erodersi in modo drammatico la sua popolarità  presso la base più militante del partito democratico, tra i sindacati, nelle minoranze, tra i giovani, quei gruppi la cui eccezionale affluenza alle urna gli aveva regalato la vittoria nel 2008. Nello stesso tempo l’offensiva del Tea Party, il denaro dei miliardari fratelli Koch, la scatenata tv Fox News hanno spostato tanto a destra il baricentro politico Usa che nel dibattito tv di martedì sera tra i candidati repubblicani alle primarie, il candidato del Tea Partry, il governatore del Texas Rick Perry, si è fatto attaccare da Michelle Bachmann e da Ron Paul come «troppo di sinistra» perché ha promosso la vaccinazione delle adolescenti contro il papillomavirus che causa i tumori dell’utero. È questo clima esasperato che Obama deve fronteggiare. La sua cedevolezza di questi mesi lo ha indebolito. Si può solo sperare che oggi sia un po’ più pugnace nel cercare di far passare il suo piano per l’occupazione. È la versione attuale del «meglio di niente». Ma di sicuro è meglio del Tea Party.


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